Cartolarizzazioni e processo: titolarità del rapporto controverso da parte della società veicolo

Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento dell’Avv. Matteo Pica Alfieri al convegno “Il Contenzioso tra Banca e Cliente: Profili Sostanziali e Processuali”, organizzato da AIGA Sezione di Prato e UGDCEC Prato il 12.12.2019, accreditato da Ordine degli Avvocati e Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Prato

 

La cartolarizzazione del credito, operazione finanziaria complessa che sembra avulsa dalla quotidianità del contenzioso dei nostri Tribunali, in realtà presenta profili particolarmente problematici e di sicuro interesse. L’irrompere nel rapporto banca-cliente della società di cartolarizzazione – cessionaria del credito dell’intermediario – genera conseguenze sia sulle azioni giudiziarie da intraprendere sia su quelle già in corso; conseguenze che possono dar luogo a questioni di una certa complessità e con significative ricadute sul contenzioso.

Nel corso di questo intervento si cercherà, quindi, di rendere conto del quadro giurisprudenziale attuale, nella consapevolezza che trattasi di tematiche per le quali – ad oggi – non si registrano significative prese di posizione in dottrina. Si cercherà, pertanto, con tutte le cautele del caso, di offrire anche alcuni spunti critici sugli arresti più recenti.

Prima di entrare nel vivo della problematica processuale che ci interessa, ossia la titolarità del rapporto controverso – sia dal lato attivo che da quello passivo – da parte della società veicolo, sono necessari brevi cenni sulle operazioni di cartolarizzazione.

 

Alcune fondamentali coordinate normative sulle cartolarizzazioni

La cartolarizzazione del credito (securitization nel mondo anglo-sassone, poiché si tratta d’istituto nato negli Stati Uniti negli anni ’70) è una forma di cessione del credito, che rientra nel più ampio genere delle attività di smobilizzo dei crediti da parte d’imprese e banche in particolare.

I riferimenti normativi sono la L. n. 130/1999 e il Reg. UE n. 2017/2402.

Si può definire come un’operazione concepita per smobilizzare una serie di crediti pecuniari (presenti o futuri) di cui sia titolare un’impresa (banca, intermediario finanziario o altra impresa), definita originator, attraverso la loro cessione a titolo oneroso (di regola pro soluto) a favore di un soggetto, denominato società per la cartolarizzazione – o special purpose vehicle (S.P.V.) – il quale provvede (direttamente o tramite una terza società) ad emettere titoli incorporanti i crediti ceduti ed a collocarli sul mercato dei capitali per ricavare la liquidità necessaria a pagare il corrispettivo della cessione e le spese dell’operazione (cfr. per una simile definizione P. Bontempi, Diritto Bancario e Finanziario, Giuffrè 2019).

Il rimborso del capitale ed il pagamento degli interessi convenzionali sui titoli emessi viene garantito agli investitori dall’ammontare complessivo dei crediti ceduti, da ogni altro credito maturato dalla S.P.V. nel contesto dell’operazione, dai relativi incassi (quindi dai pagamenti dei debitori ceduti) e dalla attività finanziarie acquistate con i medesimi titoli.

Per riscuotere i crediti ceduti la S.P.V. può incaricare terzi soggetti, che si occuperanno della riscossione e del servizio di cassa e pagamento (il c.d. servicing), i quali possono essere solo banche o soggetti iscritti all’albo di cui all’art. 106 D.Lgs. n. 385/1993 (T.u.b.).

Le S.P.V. hanno come oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione e dal 2011 sono iscritte in apposito registro tenuto dalla Banca d’Italia.

Il primo dato da tenere a mente è che tutti i crediti, i flussi finanziari e le attività destinati a garantire gli investitori costituiscono un patrimonio separato, aggredibile solo dai portatori dei titoli derivanti dal processo di cartolarizzazione.

A tal proposito, questi i principali dati normativi della L. n. 130/1999:

Art. 1, primo comma, lett. b): “le somme corrisposte dal debitore o dai debitori ceduti [sono] destinate in via esclusiva, dalla società cessionaria, al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi, dalla stessa o da altra società, per finanziare l’acquisto di tali crediti, nonché al pagamento dei costi dell’operazione.”.

Art. 3, secondo comma (introdotto con D.L. n. 91/2014): “I crediti relativi a ciascuna operazione (per tali intendendosi sia i crediti vantati nei confronti del debitore o dei debitori ceduti, sia ogni altro credito maturato dalla società di cui al comma 1 nel contesto dell’operazione), i relativi incassi e le attività finanziarie acquistate con i medesimi costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società e da quello relativo alle altre operazioni. Su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi.

Art. 4, secondo comma (introdotto con D.L. n. 145/2013, convertito con modificazioni nella L. n. 9/2014): “Dalla data della pubblicazione della notizia dell’avvenuta cessione nella Gazzetta Ufficiale o dalla data certa dell’avvenuto pagamento, anche in parte, del corrispettivo della cessione, sui crediti acquistati e sulle somme corrisposte dai debitori ceduti sono ammesse azioni soltanto a tutela dei diritti di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), e, in deroga ad ogni altra disposizione, non è esercitabile dai relativi debitori ceduti la compensazione tra i crediti acquistati dalla società di cartolarizzazione e i crediti di tali debitori nei confronti del cedente sorti posteriormente a tale data. Dalla stessa data la cessione dei crediti è opponibile: agli altri aventi causa del cedente, il cui titolo di acquisto non sia stato reso efficace verso i terzi in data anteriore; ai creditori del cedente che non abbiano pignorato il credito prima della pubblicazione della cessione.”.

Tale separazione patrimoniale non ha tanto la funzione di limitare la responsabilità della società veicolo, quanto quella di creare un meccanismo di garanzia patrimoniale per i portatori dei titoli emessi, data l’evidente minor solvibilità di una S.P.V. rispetto a una banca. Del resto, come è stato ammesso in dottrina (G. Capaldo, “La novella della legge 130/1999: nuove figure di separazione patrimoniale” in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, n. 2/2019, pag. 376 e ss.), una volta realizzata la cartolarizzazione del credito il rischio d’insolvenza del debitore viene trasferito dalla banca originator al mercato.

Il medesimo art. 4 della L. n. 130/1999 prescrive particolari adempimenti pubblicitari per la cessione, richiamando l’art. 58 T.u.b., secondo, terzo e quarto comma: iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Tali adempimenti pubblicitari, una volta eseguiti, producono per il debitore ceduto gli effetti di cui all’art. 1264 c.c.

Ultimo dato da considerare, prima di approfondire la problematica processuale, riguarda la tipologia dei titoli emessi nello schema base di cartolarizzazione. Essi sono strumenti finanziari a tutti gli effetti, soggetti al D.Lgs. n. 58/1998 (T.u.f.) e a rating di agenzie specializzate, e possono essere offerti a investitori professionali e non (cfr. art. 2 L. n. 130/1999).

Questi titoli possono avere diversa categoria di rischio (dividersi dunque in senior e junior) ma appartengono comunque al novero degli A.B.S. (acronimo di asset backed securities), emessi con la clausola in base alla quale il pagamento degli interessi ed il rimborso del finanziamento potrà avvenire solo a condizione che abbia luogo l’incasso degli asset acquistati dall’originator (c.d. clausola limited recourse).

Negli ultimi anni vi sono poi state una serie di riforme, che hanno previsto la possibilità di realizzare operazioni di cartolarizzazione con modalità che rappresentano una deviazione dallo schema base descritto in apertura. Tali novelle, che hanno sostanzialmente trasformato la cartolarizzazione nel principale strumento con il quale le banche cedono i propri crediti deteriorati, possono essere accennate come di seguito, giusto per dare idea dell’ampiezza e della complessità dell’istituto.

Gli artt. 7-bis, 7-ter (aggiunti con D.L. n. 35/2005 e più volte modificati) e 7-quater (aggiunto con D.L. n. 145/2013, convertito con modificazioni nella L. n. 9/2014) della L. n. 130/1999 hanno introdotto una disciplina incentivante per cartolarizzazione di attivi di elevata qualità creditizia (crediti fondiari, verso le p.a., ipotecari, ecc.). Al fine di agevolare l’operazione e di contenere i costi di acquisto dei crediti, è prevista la possibilità che la S.P.V. ottenga un finanziamento concesso o garantito dalla banca cedente, destinato a fornirle i mezzi per acquistare le attività ed il cui rimborso resta subordinato al pagamento delle obbligazioni derivanti dalle operazioni di cartolarizzazione. In quest’ipotesi, infatti, l’emissione dei titoli avviene da parte della stessa banca cedente (o da parte di altre banche), dando luogo a covered bonds, maggiormente garantiti degli A.B.S. emessi dalle S.P.V.

Il D.L. n. 18/2016 (convertito in L. n. 49/2016) ha poi introdotto una garanzia statale a titolo oneroso (le banche pagano una commissione sul garantito, altrimenti saremmo in presenza di aiuto di Stato) su cartolarizzazioni dei crediti in sofferenza, rinnovata dal D.L. n. 22/2019 per altri due anni. La GA.C.S. (acronimo di GAranzia sulle Cartolarizzazioni delle Sofferenze) interviene su cessioni di sofferenze per garantire il pagamento dei titoli senior (meno rischiosi rispetto ai junior) aventi un rating non inferiore all’investment grade (BBB-). Nei casi in cui opera la garanzia, il servicer deve essere soggetto diverso dalla S.P.V. e non appartenente al medesimo gruppo bancario.

Infine, in materia di crediti deteriorati è interessante segnalare il D.L. n. 50/2017 (convertito con modificazioni nella L. n. 96/2017) che ha introdotto gli artt. 7.1 e 7.2 nella L. n. 130/1999, finalizzati a disciplinare le cessioni di questa categoria di crediti. Fra le altre cose, è prevista la possibilità per le S.P.V. di erogare finanziamenti ai debitori ceduti (in ottica di risanamento aziendale), superando il divieto esistente per le banche di fare credito a soggetti in sofferenza. Viene inoltre introdotta la possibilità di creare società ad hoc (una sorta di S.P.V.2) per la gestione degli immobili a garanzia di crediti cartolarizzati, al fine di utilizzare il ricavato della gestione a beneficio dei portatori dei titoli. Sono state poi introdotte disposizioni sulle cartolarizzazioni immobiliari e sui leasing.

Si tratta, dunque, di un istituto il cui utilizzo è aumentato negli ultimi anni e destinato a crescere con le esigenze che stanno alla base delle cessioni di crediti deteriorati. Per dare un’idea della dimensione di quest’ultimo fenomeno, a settembre 2017 erano stimati 189 miliardi di Euro di N.P.L. (non performing loans, ossia le sofferenze), 102 miliardi di Euro di U.T.P. (unlikely to pay, ossia i c.d. incagli) e 6 miliardi di Euro di past due (i crediti scaduti). Sul punto, per chi volesse approfondire, rimando al documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e della Fondazione Nazionale Commercialisti dal titolo “Non Performing Loans – NPL” del luglio 2019, reperibile on-line.

La complessa operazione finanziaria fin qui descritta finisce per lasciare in secondo piano il debitore ceduto, che in realtà rappresenta il fulcro per il corretto funzionamento del sistema. Infatti, è dall’adempimento del ceduto (o comunque dal recupero del credito nei suoi confronti) che dipende la redditività dell’operazione e la possibilità di rimborsare i titoli emessi dalla S.P.V., la quale dovrà quindi provvedere – di regola tramite il suo servicer – a intraprendere le azioni opportune (decreti ingiuntivi, pignoramenti) o a intervenire nelle medesime azioni già avviate dalla banca cedente.

È a questo punto che si possono porre i problemi cui accennavo in apertura. Per una loro migliore esposizione, dovremo porci nelle vesti del debitore ceduto, in particolare in quelle di un mutuatario inadempiente.

 

Il lato attivo del rapporto controverso

Poniamo che il debitore, di cui abbiamo assunto le vesti, sia destinatario per la prima volta di atti processuali da parte di una S.P.V. (ma analogo è il caso in cui la S.P.V. intervenga in giudizio facendo proprie le domande della banca originator). La prima questione da porsi è se effettivamente la società veicolo sia titolare del credito per cui essa agisce (di regola tramite il suo servicer).

Si tratta della questione della legittimazione attiva (termine qui usato in senso atecnico, vedremo in seguito perché), che il debitore può legittimamente contestare ad un soggetto che si dichiara creditore in forza di un’operazione di cessione.

Abbiamo appena ricordato, però, che l’art. 4 della L. n. 130/1999 – che richiama a sua volta i commi secondo, terzo e quarto dell’art. 58 T.u.b. – prevede che l’iscrizione nel registro delle imprese e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’estratto della cessione valgano come notifica al debitore ceduto. Dunque, il meccanismo pubblicitario crea in capo al debitore (e ai terzi) una conoscenza legale della cessione, apparentemente non contestabile se non con difese inutilmente dilatorie.

Il problema è che gli estratti di cessione pubblicati in Gazzetta Ufficiale, nella quasi totalità dei casi, riportano solo criteri generali con cui identificare i singoli crediti ceduti (che, del resto, vengono ceduti in blocco). Questi criteri talvolta rasentano la difficile comprensione, tanto sono ermetici o poco chiari. Posso ricordare, a tal proposito, una Gazzetta Ufficiale di un anno fa, in cui la S.P.V. dava atto di aver concluso con una serie di banche (elencate nell’arco di una pagina e mezzo) ben 73 (!) contratti di cessione di crediti “che siano stati individuati nel documento di identificazione dei crediti allegato al rispettivo Contratto di Cessione e che siano vantati verso debitori classificati a sofferenza […]. In particolare, i crediti derivano dalla seguente tipologia di rapporti: (i) finanziamenti (incluse aperture di credito) sorti nel periodo tra maggio 1965 e marzo 2018 e/o (ii) crediti di firma vantati verso i medesimi debitori dei finanziamenti. In particolare è stata oggetto di cessione l’intera posizione debitoria dei debitori ceduti esistente verso la relativa Banca Cedente alla Data di Stipulazione ad eccezione delle posizioni debitorie corrispondenti ai seguenti NDG”. Seguono tre soli numeri di NDG e nient’altro. Pare davvero possibile individuare con precisione un credito ceduto sulla base di queste sole indicazioni? Mi permetterei di dire di no.

Prima di scendere nel dettaglio e vedere se la mia modesta opinione trovi un minimo di sostegno in giurisprudenza, è necessario aprire una parentesi sulla tipologia di difesa che il debitore svolge nel momento in cui sostiene che la società veicolo non è legittimata attiva, o comunque che non è titolare del credito. Le due questioni, infatti, non sono identiche, anche se spesso i concetti di legittimazione attiva e passiva vengono usati in senso più ampio.

La legittimazione ad agire o contraddire integra una questione di rito, mentre la titolarità dal lato attivo o passivo del rapporto controverso è questione di merito, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini processuali e che in questa sede non possiamo approfondire.

Sul punto mi sia consentito rimandare – oltre che alla tradizionale manualistica di diritto processuale civile – all’ampia trattazione svolta da Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 2951/2016. In questa pronuncia, la Corte ripercorre la distinzione tra legittimazione attiva e titolarità del rapporto controverso, sottolineando come la mancanza della prima possa ricavarsi dalla prospettazione fatta nella domanda di parte attrice. Poiché è assai raro che colui che intraprende un giudizio non si prospetti astrattamente titolare del diritto per il quale agisce, la questione di legittimazione attiva ha una portata residuale, vertendosi negli altri casi in ambito di titolarità del rapporto, e dunque in un problema di merito, da decidere in sentenza.

Le Sezioni Unite, in detta sentenza, affermano tre importanti principi di diritto:

1) “La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto.

2) “Le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotte dall’attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti.”;

3) “La carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa.”.

Se ne deduce che il debitore, il quale contesti la titolarità del credito della S.P.V., solleva questione preliminare di merito, onerando così la società veicolo di fornire la prova della titolarità del rapporto obbligatorio dal lato attivo.

Ecco che, ragionando in base a detti principi, numerose sentenze hanno ritenuto che l’estratto pubblicato in Gazzetta Ufficiale – proprio per le caratteristiche sottolineate supranon possa da solo essere sufficiente ad integrare la prova richiesta in capo alla cessionaria del credito, che per dimostrare di essere titolare del rapporto dovrà produrre in giudizio anche il contratto di cessione, da cui si possa ricavare che lo specifico credito per il quale essa agisce è stato effettivamente ed inequivocabilmente cartolarizzato.

Eventualmente, le sentenze che hanno esaminato la questione ritengono che la prova possa essere raggiunta anche in assenza di contratto di cessione, ma solo se la società veicolo dimostra che il singolo credito rientra in tutti i criteri indicati nell’estratto di cessione, pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Una prova che, dato il tenore delle pubblicazioni che sopra abbiamo riportato ad esempio, spesso appare assai ardua da fornire.

Qualora tale onere non sia adempiuto, la domanda viene respinta nel merito, e diverrà particolarmente complicato per la S.P.V., viste le preclusioni istruttorie e la rilevabilità d’ufficio allo stato degli atti, dimostrare la titolarità del credito nei successivi gradi di giudizio.

Fondamentale sul punto Cass. civ., Sez. I, sent. n. 4453/2018, che estende i principi delle Sezioni Unite del 2016 alle opposizioni a stato passivo promosse dalle società veicolo di cartolarizzazione, giungendo alle conclusioni appena ricordate.

Si tratta di un orientamento nell’ambito del quale si colloca anche Cass. civ., Sez. II, sent. n. 9768/2016, in materia di cessione di credito in generale, che già aveva affermato che “il cessionario che agisca per ottenere l’adempimento del debitore è tenuto a dare la prova del negozio di cessione, quale atto produttivo di effetti traslativi” seppur non “anche a dimostrare la causa della cessione o il corrispettivo per essa pattuito”.

In materia di cessioni di credito in blocco, si segnalano poi Cass. civ., Sez. I, sent. n. 4116/2016 e Cass. civ. Sez. I, sent. n. 10518/2016, secondo le quali la società cessionaria di crediti in blocco che intenda costituirsi in giudizi in corso – anche di legittimità – “di fronte alla contestazione della controparte, ha l’onere di produrre, anche successivamente al deposito del ricorso stesso, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., i documenti idonei a dimostrare l’inclusione del credito oggetto di causa nell’operazione di cessione in blocco D. Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 58 dovendo fornire la prova documentale della propria legittimazione, a meno che la controparte non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta”. Se ciò non avviene, la cessionaria è ritenuta soggetto non legittimato a stare in giudizio.

Interessante, in senso analogo, Cass. civ., Sez. III, sent. n. 22268/2018, secondo la quale “Non può non rilevarsi che il giudice d’appello ha affermato che la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale esonera sì la cessionaria dal notificare la cessione al titolare del debito ceduto, ma che se non individua il contenuto del contratto di cessione non prova l’esistenza di quest’ultima. Tale rilievo è condivisibile, giacché una cosa è l’avviso della cessione – necessario ai fini della efficacia della cessione – un’altra la prova della esistenza di un contratto di cessione e del suo specifico contenuto. La questione si sposta allora, in ultima analisi, sulla valutazione probatoria, valutazione che è riservata al giudice di merito.”.

Ancora in senso analogo si vedano, nella giurisprudenza di merito:

Trib. Benevento, sent. 7.08.2018 (in http://www.ilcaso.it), che richiede il deposito dell’atto di cessione;

Trib. Treviso, decr. 28.04.2016 (in http://www.ilcaso.it), per cui senza contratto e senza rispondenza delle caratteristiche del credito ceduto ai criteri in Gazzetta Ufficiale non vi è prova della cessione;

Trib. Padova, decr. 3.06.2016 (sempre in http://www.ilcaso.it), che applica i medesimi principi in un caso di partecipazione della società cessionaria al voto nel concordato preventivo, escludendo, però, che la rispondenza delle caratteristiche del credito ai criteri pubblicati in Gazzetta Ufficiale sia sufficiente per la prova della titolarità;

Trib. Napoli, sent. 24.05.2019, n. 5377 (in http://www.dirittobancario.it), che esclude la sufficienza della pubblicazione della cessione in apposito sito internet e che, in caso di tempestiva contestazione sull’inclusione del credito controverso nell’ambito dei rapporti bancari ceduti ex art. 58 T.u.b., nonché di omessa specificazione, nell’allegato annuncio di cessione, dei criteri in base ai quali sono stati selezionati gli stessi crediti ceduti, non è possibile stabilire se il credito sia di titolarità della cessionaria.

Si registrano poi, sempre nell’ambito di quali documenti siano sufficienti a provare l’avvenuta cessione dello specifico credito per il quale la S.P.V. agisce, alcune variazioni sul tema.

Ad esempio, il Tribunale di Prato (dott.ssa Brogi), ritiene che la Gazzetta Ufficiale non sia da sola sufficiente e che la prova dell’avvenuta cessione possa essere fornita solo con la produzione del contratto di cessione o, in alternativa, con una dichiarazione scritta e dettagliata firmata dalla cedente, nella quale si dia atto della cartolarizzazione di quella specifica posizione debitoria.

Infine, di recente la Corte di Cassazione ha addirittura richiesto la produzione in giudizio del contratto di cessione in originale (in questione che coinvolgeva operazioni internazionali): Cass. civ., Sez. III, ord. 2780/2019. Quest’ultima decisione mi pare quasi eccessiva, dato che riterrei che la S.P.V. debba produrre l’originale del contratto di cessione, o una copia con autentica notarile, solo nei casi di contestazione ex art. 2712 c.c.

Ciò detto, si potrebbe obiettare che la contestazione formulata dal debitore ceduto sulla legittimazione attiva (o meglio sulla titolarità del rapporto dal lato attivo) abbia scarso respiro, dato che la cessionaria potrà, almeno fino al termine per il deposito della memoria ex art. 183, sesto comma, n. 2 c.p.c., neutralizzarla con la produzione del contratto di cessione.

Tuttavia, accade sovente che il contratto di cessione non venga prodotto – o, almeno, che non venga prodotto nelle fasi iniziali del processo – né dalla società veicolo né dal suo servicer. Cosicché, dal punto di vista del debitore, una simile difesa può apparire di una qualche utilità, soprattutto laddove si tratti di chiedere la sospensione dell’efficacia esecutiva di un titolo o di un precetto. Ricordiamo poi che, se la prova non viene fornita nel corso del processo, si avrà una sentenza di rigetto nel merito, idonea a produrre autorità di cosa giudicata sulla titolarità o meno del credito (prima ancora di discutere dell’an e del quantum).

Devo a questo punto segnalare, però, che l’orientamento rigoroso in ambito probatorio fin qui esaminato sta recentemente entrando in crisi, anche se forse si tratta di una crisi soltanto apparente.

Alcune pronunce recenti, infatti, fanno leva sulla lettera dell’art. 4 della L. n. 130/1999, che richiama l’art. 58 T.u.b., per ritenere che la prova della titolarità del credito sia compiutamente fornita solo con la produzione in giudizio dell’estratto della Gazzetta Ufficiale. Si tratta in particolare di:

Trib. Cuneo, sent. 11.05.2018, n. 387 (in http://iusletter.com), che richiama il mero dato testuale dell’art. 4 L. n. 130/1999 e ritiene sufficiente la Gazzetta Ufficiale, in un caso in cui, però, agli atti era stato anche prodotto il contratto di cessione;

Trib. Pavia, sent. 1.02.2019, n. 184 (in http://iusletter.com), secondo cui la normativa non prevede l’indicazione specifica nell’avviso di cessione e, quindi, in materia di cartolarizzazioni non sarebbe necessaria né la notifica al debitore, né l’individuazione del singolo rapporto di credito in base ai criteri pubblicati in Gazzetta Ufficiale;

Trib. Ragusa, sent. 18.01.2019 n. 68 (citata per estratto in http://intrumlaw.it), per cui gli adempimenti pubblicitari previsti dalla normativa speciale sono sufficienti per la prova della titolarità del rapporto, ma “allorché gli elementi comuni presi in considerazione per la formazione delle singole categorie consentono di individuare senza incertezze i rapporti oggetto della cessione”.

Quest’ultima sentenza citata riprende un orientamento della Corte di Cassazione, che ha recentemente avuto modo di affermare: “In tema di cessione in blocco dei crediti da parte di una banca, è sufficiente a dimostrare la titolarità del credito in capo al cessionario la produzione dell’avviso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale recante l’indicazione per categorie dei rapporti ceduti in blocco, senza che occorra una specifica enumerazione di ciascuno di essi, allorché gli elementi comuni presi in considerazione per la formazione delle singole categorie consentano di individuare senza incertezze i rapporti oggetto della cessione.” (cfr. Cass. civ., Sez. III, sentt. n. 15884/2019 e n. 17110/2019, che richiamano a loro volta Cass. civ., Sez. V, sent. n. 31118/2017).

Segnalo, infine, una recente ordinanza in materia di cessione di azienda (Cass. civ., Sez. I, ord. 23723/2019). In un caso d’impugnazione di una sentenza da parte di un cessionario, la Corte ha riconosciuto la legittimazione ad impugnare di detto soggetto se allega “il titolo che gli consenta di sostituire quest’ultimo, essendo a tal fine sufficiente la specifica indicazione di tale atto nell’intestazione dell’impugnazione qualora il titolo sia di natura pubblica e, quindi, di contenuto accertabile, e sia rimasto del tutto incontestato o non idoneamente contestato dalla controparte”. La Corte in questo caso ha ritenuto l’eccezione del debitore meramente apodittica, essendo “fondata sul mero rilievo dell’omessa produzione dell’atto di cessione del ramo di azienda.”.

Ciò detto, personalmente ritengo che il contrasto con le pronunce che giudicano insufficiente – ai fini della prova della titolarità del rapporto controverso – la produzione della Gazzetta Ufficiale sia soltanto apparente.

A mio modesto avviso, infatti, ritenere che l’estratto della cessione sia bastevole quando “gli elementi comuni presi in considerazione per la formazione delle singole categorie consentono di individuare senza incertezze i rapporti oggetto della cessione” non muta la questione. Il piano su cui si muove la valutazione del Giudice è quello dell’onere della prova: sarà lui a dover valutare caso per caso quali siano gli elementi in grado di fondare il suo convincimento in merito alla titolarità del credito in capo alla società veicolo (estratto G.U. se dettagliato; rispondenza delle caratteristiche del credito ai criteri della G.U.; contratto di cessione, in originale o meno).

Viceversa, ritenere sufficiente la produzione in giudizio della Gazzetta Ufficiale senza alcuna riserva, o addirittura ritenere che quando la cessione è contenuta in un titolo di natura pubblica essa sia “accertabile” e dunque sia sufficiente menzionarla nell’atto processuale, mi pare porti a una sovrapposizione di piani (quello dell’efficacia – comunque diverso da quello del perfezionamento della cessione – e quello della prova della titolarità del credito) non del tutto corretta.

Come ritenuto, infatti, dalla sopra citata Cass. civ., Sez. III, sent. n. 22268/2018, una cosa è l’efficacia della cessione rispetto al debitore ceduto – per il quale è sufficiente dare prova di aver pubblicato l’avviso in Gazzetta Ufficiale – un’altra è la prova dell’esistenza di un contratto di cessione e del suo specifico contenuto, che deve essere fornita da chi agisca in giudizio. Quest’ultimo aspetto dovrà essere oggetto di valutazione caso per caso da parte del giudice di merito.

 

Il lato passivo del rapporto controverso

Esaminiamo adesso la questione della legittimazione passiva della società veicolo, o meglio la titolarità del rapporto obbligatorio controverso dal lato passivo. La questione si pone ogni volta che il debitore ceduto intenda agire per il recupero di somme indebitamente versate, o nei casi in cui si opponga alle pretese della cessionaria con eccezioni o domande riconvenzionali, siano esse di ripetizione d’indebito o di accertamento negativo, dunque finalizzate ad accertare l’esistenza di un contro-credito da portare in compensazione con quello della società veicolo.

Come emerso nel corso degli interventi degli altri relatori, molte possono essere le criticità nei rapporti banca-cliente, la maggior parte riconducibili alla nullità di clausole contrattuali.

Sulla possibilità che il debitore possa formulare eccezioni, finalizzate a paralizzare la pretesa della S.P.V., o domande riconvenzionali, fino allo scorso agosto si fronteggiavano nei Tribunali italiani due orientamenti opposti (più un terzo che in realtà costituisce specificazione del secondo).

1) Un primo orientamento – tradizionalmente ritenuto minoritario – sostiene che la S.P.V. non possa essere destinataria di eccezioni formulate dal ceduto e fondate sul rapporto da questi intrattenuto con la banca cedente, né tantomeno di domande riconvenzionali di ripetizione d’indebito. Ciò essenzialmente in base alle seguenti motivazioni, che riporto sinteticamente:

– l’art. 4 della L. n. 130/1999 non richiama il quinto comma dell’art. 58 T.u.b. (per cui “I creditori ceduti hanno facoltà, entro tre mesi dagli adempimenti pubblicitari previsti dal comma 2, di esigere dal cedente o dal cessionario l’adempimento delle obbligazioni oggetto di cessione. Trascorso il termine di tre mesi, il cessionario risponde in via esclusiva.”). Ciò starebbe a significare la possibilità, per il debitore ceduto che si assumesse creditore di somme indebitamente versate, di poter rivolgere la propria pretesa nei confronti del cedente anche decorsi i tre mesi previsti da detta disposizione;

– la cartolarizzazione è operazione di cessione del credito, non del contratto, per cui alla cessionaria viene trasferito solo il lato attivo delle obbligazioni, non potendo farsi valere nei suoi confronti eccezioni fondate su rapporti contrattuali intercorsi tra originator e ceduto. Anche per questo motivo, non sarebbe applicabile il quinto comma dell’art. 58 T.u.b., posto che la norma è riferibile a cessioni di interi rapporti;

– la sostituzione del cessionario al cedente nell’ambito dell’art. 58 T.u.b. sarebbe giustificata dalla solvibilità delle banche, che è ben superiore a quella delle S.P.V. Sostituzione dunque non possibile nelle operazioni di cartolarizzazione.

Appartengono a questo filone le seguenti sentenze delle corti di merito:

Trib. S.M. Capua Vetere, sent. 21.05.2018, n. 1742 (in http://www.expartecreditoris.it), che insiste sulla non applicabilità dell’art. 58, quinto comma, T.u.b., salvo poi ritenere la questione sulla legittimazione assorbita dalla manifesta infondatezza della domanda nel merito;

Trib. Monza, sent. 5.06.2017, n. 1761 (in banca dati DeJure), che motiva in modo identico, sempre con riferimento alla non applicabilità del quinto comma dell’art. 58 T.u.b. e al fatto che le censure basate su nullità contrattuali debbano essere indirizzate alla cedente, poiché non si ha cessione del contratto;

A.B.F. Milano, dec. n. 8884 del 1.12.2015, che ripresenta le solite argomentazioni e poi ritiene assorbita la questione di legittimazione passiva per manifesta infondatezza nel merito;

Trib. Palermo, Sez. distaccata Bagheria, sent. 4.11.2008 (in http://www.ilcaso.it), in cui, prima ancora della mancata applicabilità del quinto comma suddetto, si valorizza la mancata cessione del contratto, ritenendo che nulla sia previsto, nel caso sottoposto al giudizio del Tribunale, in merito ai debiti del cedente.

2) Viceversa, l’orientamento giurisprudenziale tradizionalmente ritenuto maggioritario ritiene che, in forza del contratto di cessione di crediti in blocco, la S.P.V. acquisti dalla società cedente la titolarità di tutti i crediti (per capitale, interessi, anche di mora, accessori, spese, ulteriori danni e quant’altro) derivanti dal contratto di finanziamento ceduto e succeda a titolo particolare in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi già di titolarità dell’originator. Le sentenze che appartengono a quest’orientamento, fermi i continui rimandi l’una all’altra, fondano la propria decisione sul richiamo ad alcune pronunce di legittimità relative alla cessione di azienda bancaria, di cui all’art. 58 T.u.b. (applicato indistintamente, incluso il discusso quinto comma di cui sopra).

La Corte di Cassazione aveva, infatti, più volte chiarito che “la norma di cui all’art. 58 del testo unico delle leggi in materia bancaria (come già, in precedenza, l’art. 54 r.D.L. 12 marzo 1936, n. 375) prevedendo il trasferimento delle passività al soggetto cessionario della azienda bancaria e non la semplice aggiunta della responsabilità di questo ultimo a quella del cedente, deroga alla norma codicistica di cui all’art. 2560, comma 2 c.c., sulla quale, dunque, prevale in virtù del principio di specialità. Quindi, dal semplice fatto della cessione e del decorso del termine di tre mesi dalla pubblicazione prevista dal comma 2 del ricordato art. 58, deriva, pertanto, il trasferimento al cessionario dei debiti e crediti della cedente compresi nella cessione stessa” (cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 18258/2014; Cass. civ., Sez. II, sent. n. 22199/2010; Cass. civ., Sez. I, sent. n. 10653/2010).

Sul punto mi permetto anche di segnalare Cass. civ., Sez. I, sent. n. 12194/2012 che ha pacificamente ammesso, nelle cessioni ex art. 58 T.u.b., la legittimazione passiva del cessionario nelle domande di ripetizione d’indebito.

Vi è poi un’altra argomentazione a sostegno di questa posizione giurisprudenziale, che mi riservo di esaminare più avanti.

L’orientamento appena illustrato, in conclusione, ritiene che se il debitore chiede l’accertamento di un credito, strumentale alla restituzione delle somme indebitamente percepite in ragione del contratto stipulato con la banca, sia insussistente la legittimazione passiva dell’originator, per essere unica legittimata passiva la società cessionaria.

Queste le sentenze tradizionalmente ricondotte a detta posizione:

Trib. Milano, sent. 12.01.2016, n. 336 (in http://www.expartecreditoris.it), che però si è occupata di una cessione di un ramo d’azienda bancario, con successiva fusione per incorporazione;

Trib. Pavia, sent. 12.10.2016, n. 1408 (in http://www.ilcaso.it), che esclude la legittimazione passiva della banca cedente nelle domande di accertamento negativo del credito da parte del debitore ceduto, con motivazione peraltro piuttosto sintetica;

Trib. Catania, sent. 19.03.2018 (in banca dati Pluris), che esclude la legittimazione passiva della banca cedente per essere unica legittimata la cessionaria, richiamando la giurisprudenza di Cassazione da ultimo ricordata;

Trib. Catania, sent. 30.08.2019, n. 3549 (in banca dati DeJure), che motiva in senso analogo, in un caso in cui tuttavia il giudice aveva inizialmente autorizzato la chiamata in causa della banca cedente.

Si trovano poi citate più volte, in giurisprudenza, a sostegno di quest’orientamento anche le seguenti pronunce:

Trib. Napoli Nord, sent. 10.11.2016;

Trib. Rieti, sent. 18.04.2017.

3) In argomento, è possibile inoltre rivenire un terzo orientamento, che sostanzialmente ritiene che – nei casi di domanda di ripetizione d’indebito da parte del debitore ceduto – la legittimazione passiva (o meglio, la titolarità del rapporto obbligatorio) debba essere rinvenuta nel soggetto che ha percepito le somme che si assumono non dovute.

Si tratta di una posizione assunta da Trib. Napoli Nord, sent. 26.02.2018, n. 563 (in http://www.expartecreditoris.it) e soprattutto dal Collegio di Coordinamento A.B.F. con la dec. n. 6816 del 27.03.2018.

Quest’ultima decisione presenta un’ampia motivazione ed esamina la questione del diritto alla ripetizione d’indebito, che il Collegio ritiene sorgere solo quando il finanziamento è estinto (dunque l’A.B.F. non si occupa di eventuali azioni di accertamento di contro-crediti in compensazione), per giungere alla seguente conclusione: “Se dunque è la SPV a ricevere il pagamento, legittimata passiva all’azione è esclusivamente quest’ultima.

Per giungere alle sue conclusioni, l’A.B.F. sviluppa argomenti volti a smentire la tesi della giurisprudenza minoritaria, ridimensionando il valore del mancato richiamo al quinto comma dell’art. 58 T.u.b. da parte dell’art. 4 della L. n. 130/1999. Rimandando alla lettura della decisione, mi permetto di richiamare in questa sede i seguenti argomenti:

– la mancanza del quinto comma dell’art. 58 T.u.b. nel richiamo operato dall’art. 4 L. n. 130/1999, può essere interpretata anche in segno opposto a quanto operato da alcuni Tribunali. Si può, infatti, sostenere che, diversamente da quanto avviene nelle ipotesi di cessioni di crediti in blocco, conseguenti a trasferimenti d’azienda o di singoli rami, in cui seppur per un periodo di tempo limitato continua a sussistere la responsabilità del cedente, eccezionale e quindi limitata nel tempo, negli altri casi (tra cui anche le cartolarizzazioni), tale responsabilità resta fin dall’inizio esclusa. La cessionaria può quindi ben essere destinataria di domande da parte del ceduto;

– essendo il mutuo un contratto non sinallagmatico, la sua cessione al terzo non è sussumibile al modello generale di cessione del contratto descritto nell’art. 1406 c.c., essendo quella del mutuatario, restitutoria del capitale e solutoria degli interessi, l’unica obbligazione riconducibile al coefficiente causale del contratto, con la conseguente difficoltà, in concreto, di distinguere tra cessione del credito (al capitale e agli interessi) e cessione del contratto;

– priva di rilevo sarebbe, poi, la tesi della maggiore solvibilità della banca rispetto alla S.P.V., che giustificherebbe la mancata sostituzione della cessionaria alla cedente che invece è operata dall’art. 58 T.u.b.. Secondo l’A.B.F., da un lato la circostanza che una S.P.V. non sia solvibile è tutta da dimostrare e, dall’altro, il legislatore avrebbe potuto soddisfare questa esigenza mantenendo espressamente in capo al cedente, in ipotesi di cartolarizzazione, ogni responsabilità relativa alla esecuzione del rapporto oggetto di cessione.

Il ragionamento dell’A.B.F. è, però, ben più articolato, basandosi sul fatto che il diritto alla ripetizione dell’indebito di somme pagate in base ad un contratto di mutuo – secondo il Collegio – sorge solo quando il finanziamento è estinto. Per questo, a maggior ragione, il mancato richiamo al quinto comma dell’art. 58 T.u.b. viene ritenuto un falso problema, facendo esso riferimento ai “creditori ceduti”. Nei casi analoghi a quello oggetto della decisione A.B.F., il soggetto finanziato non sarebbe, al momento della cessione, creditore della prestazione per cui agisce, ossia dell’indebito. Perciò, ne ricava il Collegio, per effetto della cartolarizzazione non vi sarebbe alcuna successione del cessionario al cedente rispetto al debito (originato dal fatto dell’estinzione del mutuo) nei confronti del contraente ceduto, in quanto ancora non sarebbe sorta la relativa posizione creditoria di quest’ultimo, e pertanto essa non sarebbe suscettibile di cessione.

Al tempo stesso, la differenza tra cessione di credito e cessione del contratto viene svuotata di significato, posto che, nel ragionamento del Collegio, il fatto-fonte del credito restitutorio non è il contratto, bensì il fatto del pagamento da parte del mutuatario delle somme richieste al momento dell’estinzione del finanziamento. Fonte del credito del mutuatario è pertanto l’indebito, e, di conseguenza, debitore della prestazione restitutoria è chi ha ricevuto il pagamento, nel caso di specie la società veicolo.

Pochi mesi fa, il 30.08.2019, è infine intervenuta Cass. civ., Sez. III, sent. n. 21843/2019, prima – e ad oggi unica – sentenza di legittimità a decidere su di una questione di legittimazione passiva della società veicolo. Una decisione potenzialmente in grado di mutare il quadro giurisprudenziale fin qui delineato.

La Corte ha deciso un caso di opposizione a decreto ingiuntivo, in cui era avvenuta un’operazione di cartolarizzazione in corso di causa, con successiva costituzione in giudizio della società veicolo.

Dopo aver ripercorso in maniera analitica le posizioni della giurisprudenza di merito ritenuta maggioritaria, e aver citato le relative sentenze, la Suprema Corte ha ritenuto di non poter condividere tale orientamento. La S.P.V. non è stata dunque ritenuta titolare del rapporto obbligatorio dal lato passivo (il ceduto nella sua opposizione a d.i. aveva formulato censure in materia di anatocismo), e la domanda del debitore è stata respinta, con conferma del decreto ingiuntivo opposto.

Partendo dal presupposto che, come ricordato dalle Sezioni Unite del 2016, anche il problema della legittimazione passiva della società veicolo sia in realtà questione di merito, la Cassazione ha fondato la sua motivazione sul dato testuale degli artt. 1, lett. b) e 4, secondo comma, della L. n. 130/1999, argomentando sulla realizzazione, nelle operazioni di cartolarizzazione, di un patrimonio separato.

Affermando che in caso di cartolarizzazione si ha cessione del credito e non del contratto, e che argomentare in punto di deroga all’art. 2560 c.c. realizzi solo una confusione dei piani, la pronuncia in commento afferma l’impossibilità per il debitore ceduto di “opporre in compensazione, al cessionario, controcrediti da essi vantati verso il cedente (nascenti da vicende relative al rapporto con esso intercorso ed il cui importo, pertanto, lungi dall’essere noto alla “società veicolo” al momento della cessione, deve essere accertato giudizialmente), […] addirittura consentire, come nella specie, la proposizione di domande riconvenzionali, significherebbe andare ad incidere, in modo imprevedibile, su quel “patrimonio separato a destinazione vincolata” di cui si diceva, “scaricandone”, così, le conseguenze sul pubblico dei risparmiatori ai quali spetta, invece, ed in via esclusiva, il valore del medesimo.”.

Per la Suprema Corte, dunque, il patrimonio delle S.P.V. sarebbe unicamente destinato al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti medesimi. Da ciò l’affermazione sopra riportata, secondo la quale il ceduto non può opporre al cessionario in compensazione contro-crediti vantati verso il cedente.

Il tutto perché i possessori dei titoli possono essere solo soggetti al “rischio che deriva dal fatto che i crediti cartolarizzati non siano incassati – perché non soddisfatti dai debitori, ovvero perché inesistenti o, al limite, perché già estinti anche per compensazione ma non anche a quello (pena, altrimenti, la negazione del meccanismo della separazione come tracciato dalla L. n. 130 del 1999, art. 1, comma 1, lett. b) che sul patrimonio alimentato dai flussi di cassa, generati dalla riscossione dei crediti cartolarizzati, possano soddisfarsi anche altri creditori.” Da ciò la conclusione per cui è possibile ammettere in compensazione con il credito vantato dalla cessionaria solo i contro-crediti del ceduto che abbiano i requisiti per la compensazione legale.

Al momento non è possibile prevedere l’andamento della giurisprudenza sul punto. Certo è che questo arresto della Cassazione rappresenta un precedente autorevole, essendo il primo ad essersi occupato specificamente della posizione processuale della società veicolo dal lato passivo.

Tuttavia, mi sia consentito di cercare di offrire alcuni spunti di riflessione in chiave critica alla motivazione della Cassazione; spunti che originano da un certo senso d’ingiustizia per la posizione del debitore ceduto, dal cui punto di vista è stata compiuta tutta questa esposizione. Questi è, infatti, soggetto che rimane estraneo all’operazione di cartolarizzazione ma che – nel ragionamento della Corte – finisce per vedere fortemente limitato il proprio diritto di difesa, anche in controversie già iniziate. L’ingiustizia mi sembra tanto più palese in quanto la posizione processuale del ceduto viene sacrificata ritenendo prevalente l’interesse dei titolari degli strumenti finanziari emessi dalla S.P.V., che abbiamo visto in apertura essere comunque soggetti – di regola – al rischio della perdita integrale del capitale investito.

Ciò detto, mi pare che – per quanto specifica – un’operazione di cartolarizzazione si inserisca inevitabilmente nelle operazioni di cessione del credito, che si realizzano senza il consenso del debitore ceduto. La posizione del ceduto è tale proprio perché tradizionalmente è stato affermato che per esso è indifferente a chi pagare.

Quest’affermazione, però, porta con sé il corollario – ben noto in giurisprudenza e richiamato dai Tribunali appartenenti al filone maggioritario di cui sopra – che la cessione del credito non possa peggiorare la posizione del debitore ceduto.

Parimenti, è inevitabile ricordare che non esistono nell’ambito della cessione del credito norme del Codice civile che disciplinano le eccezioni opponibili dal debitore al cessionario. Si tratta, in questo caso, di argomentazione ben nota a quel filone giurisprudenziale ritenuto maggioritario descritto poco fa.

In tal senso è stato ritenuto che “A seguito della cessione del credito il debitore ceduto diviene obbligato verso il cessionario allo stesso modo in cui era tale nei confronti del suo creditore originario. Pertanto, potrà opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente sia quelle attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia quelle relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori alla cessione od anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all’accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto.” (cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 575/2001; Cass. civ., Sez. III, sent. n. 8373/2009).

Ragionando nel contesto dei principi generali in materia di cessione del credito si può, dunque, ravvisare un primo motivo di criticità di questa sentenza della Cassazione. Tuttavia, si potrebbe obiettare che quella sulle cartolarizzazioni è una Legge speciale, che contiene una previsione ad hoc per cui, in deroga ad ogni altra disposizione “non è esercitabile dai relativi debitori ceduti la compensazione tra i crediti acquistati dalla società di cartolarizzazione e i crediti di tali debitori nei confronti del cedente sorti posteriormente a tale data.” (art. 4, secondo comma, L. n. 130/1999).

Riterrei, comunque, che ci si debba intendere sul significato di quest’ultima espressione, ossia su quando si possa parlare di credito sorto posteriormente alla cessione.

La Suprema Corte pare annoverare anche i crediti per eventuali indebiti tra quelli sorti posteriormente, poiché essi troverebbero la loro fonte in un accertamento compiuto all’esito di un giudizio ordinario di cognizione.

Eppure, abbiamo visto, anche grazie agli interventi degli altri relatori di oggi, che in diritto bancario molte questioni sfociano in nullità contrattuali, abbiano esse ad oggetto l’intero contratto o singole clausole. Ed è insegnamento pacifico quello per cui la nullità sia solo accertata dal provvedimento del giudice, che avrà efficacia dichiarativa ed ex tunc, dunque retroattiva. Siamo dunque sicuri che il contro-credito di un debitore ceduto fondato su nullità contrattuali possa dirsi sorto solo successivamente all’accertamento giurisprudenziale e dunque alla cessione?

Questa riflessione si collega strettamente con l’ultimo rilievo in chiave critica che provo a muovere alla sentenza in esame. In essa, infatti, la Corte ammette che il portatore dei titoli emessi dalla S.P.V. è comunque soggetto al “rischio che deriva dal fatto che i crediti cartolarizzati non siano incassati – perché non soddisfatti dai debitori, ovvero perché inesistenti o, al limite, perché già estinti anche per compensazione”. Se la cessione ha quindi ad oggetto un credito (parzialmente) inesistente, il titolare dello strumento finanziario sembrerebbe sottostare al relativo rischio.

Ebbene, per comprendere quando si abbia un credito inesistente, occorre nuovamente far riferimento ai principi generali in materia di cessione del credito. In particolare, l’art. 1266 c.c. prevede che in caso di cessione pro soluto a titolo oneroso (come le cartolarizzazioni) il cedente debba garantire la veritas nominis, ossia l’esistenza del credito al momento della cessione.

La dottrina e la giurisprudenza che hanno esaminato tale concetto hanno tradizionalmente ritenuto inesistente anche il credito ceduto derivante da titolo nullo: “Nella cessione pro soluto il trasferimento al cessionario della titolarità del credito presuppone la esistenza di detto credito nella sfera giuridica del cedente. Il credito è inesistente quando lo stesso non appartiene al cedente bensì ad altro soggetto, ovvero qualora il titolo su cui dovrebbe fondarsi è inesistente, ovvero presenta una causa di nullità, o ancora quando il credito, esistente prima della cessione, risulti estinto per una causa sopravvenuta quando si perfeziona la cessione.” (cfr. da ultimo Trib. Viterbo, sent. 21.08.2019 in banca dati Pluris). Sul punto si può anche scomodare la dottrina e la manualistica tradizionale (Bianca, Torrente-Schlesinger), nonché risalente e mai smentita giurisprudenza di Cassazione (cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 9428/1987; Cass. n. 1476/1947, richiamata in AA.VV., sub art. 1266 c.c., in La Giurisprudenza sul Codice Civile, a cura di C. Ruperto, Giuffrè 2005, in cui si parla della necessità di valido titolo).

Siamo quindi sicuri che, se il ceduto oppone alla società veicolo eccezioni o contro-crediti fondati sull’esistenza di nullità contrattuali, la sua domanda debba essere respinta sulla base delle argomentazioni di cui all’ultima Cassazione n. 21843/2019? Se i titolari degli strumenti finanziari sono soggetti al rischio d’inesistenza del credito ceduto, se il credito ceduto è inesistente quando fondato su titoli nulli e se la declaratoria di nullità retroagisce, perché la cessionaria del credito non potrebbe essere destinataria di domande (soprattutto di domande di accertamento negativo) da parte del debitore ceduto? Non sarebbe, allora, un problema di garanzia del credito, che la società veicolo potrà far valere nei confronti della banca originator?

Si tratta, naturalmente, di argomenti da prendere con la dovuta cautela, che hanno il solo scopo di far riflettere sull’ultima presa di posizione della giurisprudenza di legittimità. Spero comunque di essere riuscito a fornire qualche spunto critico.

Anche perché la sentenza esaminata pone non pochi dubbi legati alle sue conseguenze. Cosa dovrebbe fare – nel ragionamento della Corte – il debitore ceduto? Probabilmente, in casi analoghi a quello della decisione, dovrebbe opporsi all’eventuale estromissione della cedente, per evitare la conferma del decreto ingiuntivo opposto.

In generale, però, non è detto che promuovere azioni solo nei confronti della banca cedente ponga al riparo il debitore da eccezioni di carenza di legittimazione passiva e gli consenta di recuperare l’eventuale indebito. L’alternativa, nel sistema delineato dalla Cassazione (ma forse anche dal Collegio di Coordinamento A.B.F.), sarebbe quella di subire passivamente ogni azione di recupero (anche espropriativa) da parte delle società veicolo, salva la possibilità di far valere le proprie ragioni nei confronti della cedente o, eventualmente, della S.P.V. una volta che essa abbia percepito l’indebito. Con un inevitabile peggioramento della situazione del debitore ceduto, a causa dell’operazione di cartolarizzazione.

Vi lascio con questi interrogativi, nella consapevolezza che le questioni legate alla titolarità del rapporto controverso diventeranno sempre più centrali nel contenzioso bancario. Trattandosi di questioni preliminari, appare probabile che, a seconda di quali saranno gli orientamenti prevalenti, le complesse problematiche di anatocismo, usura, forma, indeterminatezza e nullità dei contratti bancari (che anche oggi gli altri relatori hanno compiutamente affrontato) finiranno per rimanere assorbite in molte controversie.

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I fondi di ristoro per le crisi bancarie: attualità e prospettive

È ormai al centro del dibattito politico delle ultime settimane la volontà del Governo di offrire un aiuto concreto ai tanti risparmiatori rimasti vittime delle crisi bancarie, da quella di Banca Etruria a quella delle banche popolari venete, di cui abbiamo dato conto anche sul nostro sito internet.

Il ristoro dovrà passare attraverso la creazione (o il potenziamento) di appositi fondi costituiti con denaro pubblico o derivante dal sistema interbancario. Un’erogazione di denaro appartenente alla collettività, che si ritiene da più parti giustificata dal fatto che le vittime dei crack bancari non sono investitori esperti, ma piccoli risparmiatori cui sono stati venduti titoli in violazione della normativa in materia di prestazione dei servizi d’investimento. Si tratta, in altre parole, di soggetti che hanno subito un danno ingiusto e che si trovano nell’impossibilità di vederselo risarcito altrimenti.

Vediamo allora quali sono i fondi attualmente esistenti, a cui i risparmiatori possono (a certe condizioni) già rivolgersi, e cosa prevede il disegno di Legge di bilancio in discussione in questi giorni in Parlamento.

Il fondo di solidarietà per le crisi di Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Chieti.

Istituito con la Legge di stabilità 2016 (L. n. 208/2015) in seguito al c.d. Decreto salva banche (D.L. n. 183/2015), ulteriormente modificato dal D.L. n. 59/2016, ha la funzione di rimborsare gli investitori (persone fisiche o piccoli imprenditori) che detenevano strumenti finanziari subordinati emessi dalle banche poste in risoluzione. Tali strumenti dovevano essere stati acquistati direttamente dalla banca emittente prima del 12.06.2014 e ancora detenuti al momento della risoluzione.

La tutela offerta dal legislatore è dunque relativa solo alle obbligazioni subordinate, non alle azioni o ad altri titoli negoziati dalle quattro banche.

Il fondo, gestito a sua volta dal fondo interbancario di tutela dei depositi, consente di erogare un indennizzo pari all’80% del prezzo di acquisto pagato per gli strumenti finanziari “azzerati” a causa della risoluzione delle quattro banche, al netto di oneri, spese e del differenziale positivo tra rendimento degli strumenti finanziari subordinati e rendimento di mercato (individuato con appositi parametri previsti dalla legge).

Può accedere al fondo chi abbia determinati requisiti reddituali e patrimoniali: un reddito complessivo a fini Irpef inferiore ad € 35.000,00 ed un patrimonio mobiliare inferiore ad € 100.000,00. Il rispetto di tutti i criteri previsti rende il rimborso automatico.

L’accesso al fondo si pone come alternativa alla procedura arbitrale prevista dalla Legge di stabilità 2016 e di competenza dell’Autorità nazionale anti-corruzione. Con questa procedura, il risparmiatore potrà dimostrare di aver acquistato gli strumenti finanziari delle quattro banche in violazione della normativa di trasparenza prevista in materia di sottoscrizione e collocazione di titoli subordinati, potendo, in caso di vittoria, ottenere il risarcimento integrale.

L’arbitrato all’ANAC è entrato in funzione nella primavera del 2017; con il D.L. n. 99/2017, che ha posto in liquidazione coatta amministrativa le c.d. banche venete, questo strumento di tutela, assieme alla possibilità di accesso al fondo, è stato esteso anche ai possessori di strumenti finanziari subordinati di Veneto Banca e di Banca Popolare di Vicenza.

Il fondo di ristoro finanziario per la liquidazione coatta amministrativa di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

La Legge di bilancio 2018 (L. n. 205/2017) ha poi introdotto il fondo di ristoro finanziario per i risparmiatori rimasti coinvolti nelle crisi delle due banche venete e che, in base al D.L. n. 99/2017 potevano ottenere un indennizzo solo per le obbligazioni subordinate.

Questo fondo ha conosciuto un’importante modifica da parte del recente Decreto c.d. milleproroghe (D.L. n. 91/2018) che, oltre ad implementarne la dotazione economica, ha esteso il suo ambito di applicazione, fino a ricomprendere la possibilità di accesso anche agli azionisti delle due banche.

Per poter ottenere un rimborso da parte del fondo di ristoro, è necessario che sia accertato un danno ingiusto, derivato ai risparmiatori dalla violazione delle regole di diligenza, trasparenza e correttezza in materia di prestazione di servizi d’investimento. L’accertamento potrà quindi essere contenuto in sentenze di Tribunale, in decisioni dell’Arbitro per le controversie finanziarie (ACF) presso la Consob o in decisioni della Camera arbitrale dell’ANAC. Si tratta di decisioni già emanate, o – per quanto riguarda l’ACF – in corso di emanazione, per cui non è previsto rimborso per quegli investitori che ancora non avessero presentato domanda all’Autorità giudiziaria o ad uno degli arbitri.

Il rimborso sarà pari al 30% del danno accertato e nei limiti di € 100.000,00, dedotte eventuali forme di risarcimento o indennizzo già percepite dai risparmiatori. Dal tenore del milleproroghe si ricava che la richiesta di rimborso non comporta rinuncia ai propri diritti, né ad ulteriori azioni. Ciò significa che i risparmiatori, richiedendo la percentuale prevista, non rinunciano alle ulteriori somme loro dovute. Si tratta di un punto importante, dato il formarsi in questi mesi di giurisprudenza sulla vicenda delle banche venete che potrebbe aprire spiragli per agire nei confronti di Banca Intesa, che ha acquistato le aziende delle banche in liquidazione.

In attesa dei decreti attuativi, al momento è già possibile richiedere il rimborso all’ACF della Consob, nel caso in cui il risparmiatore disponga di una decisione a lui favorevole. Purtroppo al momento non è possibile dare certezze sulle tempistiche dei rimborsi, anche se qualcosa si sta muovendo proprio con la Legge di bilancio in esame alla Camera.

La Legge di bilancio in discussione in Parlamento.

Per tentare di chiudere una pagina drammatica per molte famiglie, che hanno visto sfumare i propri risparmi a causa di condotte spregiudicate degli istituti di credito e dei loro funzionari, il Governo ha intenzione innanzitutto di potenziare la dotazione economica del fondo di ristoro finanziario, portandola ad 1,5 miliardi di Euro nei prossimi tre anni (si parla di un’erogazione di € 525 milioni all’anno) e consentendo l’accesso a tutte le vittime delle crisi bancarie.

Al fondo sembra che potranno fare accesso non solo i risparmiatori che già hanno ottenuto una sentenza favorevole dal Tribunale o dall’Arbitro bancario finanziario, ma anche chi non ha intrapreso tale percorso. Presso la Consob, infatti, verranno istituiti 10 collegi arbitrali specifici per conoscere i nuovi ricorsi dei risparmiatori, con una procedura semplice e veloce, che consentirà all’Arbitro di pronunciarsi sulla base dei documenti prodotti, senza neppure instaurare il contraddittorio con le banche.

Anche in questo caso, se sarà riconosciuto un danno ingiusto da violazione delle regole in capo agli intermediari finanziari, il risparmiatore otterrà subito il 30% dell’importo liquidato, nei limiti di € 100.000,00. Tuttavia non è escluso che tale percentuale possa poi essere incrementata, alla luce della dotazione finanziaria del fondo e delle effettive domande di ristoro che saranno inoltrate.

Oggetto di discussione in queste settimane è se l’accettazione di questa cifra possa costituire o meno una rinuncia totale al risarcimento complessivo accertato, e se con il ricorso all’Arbitro il risparmiatore debba o meno rinunciare a ogni possibile causa contro le banche. Ciò che appare, però, dal disegno di Legge è la possibilità di ricorrere all’arbitrato anche per i risparmiatori che nel frattempo avevano accettato la proposta transattiva, formulata dalle banche venete prima della loro messa in liquidazione.

Siamo quindi in presenza di un quadro normativo che genera qualche speranza nei piccoli investitori, alla luce anche di una giurisprudenza che – per quanto riguarda le banche venete – alterna decisioni che coinvolgono nei risarcimenti Intesa Sanpaolo ad altre che chiudono definitivamente quella porta, lasciando aperta solo la strada dell’insinuazione al passivo della liquidazione coatta amministrativa.

Si tratta di scenari di cui abbiamo già dato conto nei mesi scorsi e che continueremo a monitorare nelle prossime settimane, all’esito dell’approvazione della manovra di bilancio.

 

La tutela dei risparmiatori nelle crisi bancarie

Dal novembre 2015 i risparmiatori italiani hanno assistito a numerosi interventi da parte del Governo finalizzati a salvaguardare alcuni istituti bancari. Se la ragione di queste operazioni, attuate con la regia dello Stato, è stata quella di garantire la tenuta del sistema creditizio nel suo complesso (assieme al denaro dei correntisti), è anche vero che non si è trattato di iniziative indolori, soprattutto per i piccoli investitori.

Tre crisi, tre diverse soluzioni.

Negli ultimi anni, le crisi che hanno coinvolto il sistema bancario sono essenzialmente tre: quella delle c.d. quattro banche (Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Chieti e Banca delle Marche); quella del Monte dei Paschi di Siena; quella delle banche venete: Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Tre situazioni in cui il Governo ha operato in tre modi diversi per salvaguardare la tenuta del sistema creditizio.

Nel caso delle quattro banche, il Governo, con il D.L. n. 183/2015, ha previsto la loro risoluzione. Ciò sulla base del D.Lgs. n. 180/2015, che aveva a sua volta recepito la “Direttiva europea sulla risoluzione delle crisi bancarie – BRRD”, assurta alle cronache per l’introduzione del meccanismo del bail in. L’assoggettamento a risoluzione ha comportato la cessione delle parti buone dell’azienda bancaria a nuovi istituti appositamente costituiti (ad esempio la Nuova Banca Etruria), in gergo detti good bank, tecnicamente degli enti ponte. A questo punto, la vecchia banca è stata assoggettata alla liquidazione coatta amministrativa, mentre gli enti ponte sono stati prima acquistati e poi incorporati in altri istituti di credito (Banca Popolare dell’Emilia Romagna per Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara, UBI Banca per le altre tre). Ciò sia detto semplificando al massimo, posto che la procedura ha previsto anche l’intervento del fondo di risoluzione interbancario per la sottoscrizione del capitale degli enti ponte, nonché la creazione di una società veicolo per la cessione dei crediti a sofferenza.

Tutto bene? Non proprio. La soluzione di queste crisi, nell’applicazione della nuova normativa europea, ha comportato l’azzeramento delle azioni e delle obbligazioni subordinate (il c.d. burden sharing). Titoli che, se pur astrattamente sono detenuti da chi è sottoposto al rischio d’impresa, nel concreto erano stati collocati dalle medesime banche presso numerosi risparmiatori, intenzionati a compiere investimenti sicuri. Proprio a tal proposito, con la messa in liquidazione, era anche stata prevista la possibilità di rimborso (tramite un fondo appositamente costituito) dell’80% del valore ai risparmiatori e una procedura arbitrale apposita presso l’Autorità nazionale anticorruzione.

Per il Monte dei Paschi di Siena il Governo ha operato una soluzione diversa, pur prevedendo anche in questo caso il burden sharing, dunque l’azzeramento a copertura delle perdite di azioni e obbligazioni subordinate. Anche in questo caso, poi, è stata prevista una forma di compensazione per i risparmiatori vittima di vendita fraudolenta dei titoli. Con l’adozione del D.L. n. 237/2016 è stata infatti aperta la strada alla ricapitalizzazione precauzionale della Banca; una misura prevista dalla direttiva europea BBRD in caso di banche solvibili e che richiede l’approvazione della Commissione europea. La ricapitalizzazione è stata sostenuta economicamente dallo Stato, che è quindi entrato a far parte del capitale della Banca in quota maggioritaria fino al 2021, con possibilità di uscirne prima in caso di rilancio più rapido dell’istituto. A ciò si è affiancato un ingente piano di cessione dei crediti deteriorati della Banca.

Ancora diverso è il caso delle due banche venete: Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. In questo caso, il D.L. n. 99/2017 ha aperto la procedura di liquidazione coatta amministrativa dei due istituti, prevedendo la cessione dell’azienda bancaria a Banca Intesa Sanpaolo. In questo caso non ci sono stati enti ponte, né burden sharing, ma solo il perfezionamento della cessione mediante un atto negoziale, basato su un’accurata delimitazione normativa del suo perimetro, che esclude dalla cessione determinate passività, debiti o controversie. Un’operazione che non finisce di generare dubbi e perplessità.

Le quattro banche e la responsabilità degli enti ponte (e delle incorporanti)

Nel caso delle quattro banche risolte nel novembre 2015, i detentori di titoli che non avessero accettato la proposta di rimborso parziale, o non avessero fatto ricorso allo speciale arbitrato istituito presso l’A.N.A.C. possono ricorrere all’autorità giudiziaria per chiedere il risarcimento del danno.

A tal proposito, si segnalano alcune recenti pronunce che hanno attribuito agli enti ponte (ad es. la Nuova Banca Etruria) – ma il ragionamento è applicabile anche agli istituti che poi li hanno incorporati, come UBI Banca – la legittimazione passiva per le azioni risarcitorie in materia di violazione delle disposizioni sull’attività di prestazione di servizi d’investimento. Si tratta del Tribunale di Ferrara, con le ordinanze del 29.10.2017 e del 31.10.2017, e del Tribunale di Milano, con la sentenza dell’8.11.2017.

In particolare, nell’ordinanza del Tribunale di Ferrara del 31.10.2017, che ha avuto un certo risalto anche sulla stampa generalista, si può leggere: “si ponga attenzione al fatto che parte attrice non agisce per ottenere il rimborso delle azioni, pacificamente escluso dalla normativa di fine 2015, ma per chiedere il risarcimento del danno derivato da un inadempimento della banca ad obblighi informativi. Nessuna preclusione per coloro che facciano valere diritti relativi all’adempimento a contratti di investimento stipulati dalla vecchia banca a prescindere dal fatto che siano o meno esauriti”.

Si tratta di un’affermazione molto importante per chi ritiene di essere stato raggirato al momento dell’acquisto delle azioni delle banche liquidate, che hanno perso il loro valore in seguito al burden sharing. Infatti, poter chiedere i danni a UBI Banca o a Banca Popolare dell’Emilia Romagna consente di veder soddisfatte le proprie pretese, piuttosto che procedere ad insinuarsi al passivo delle procedure di liquidazione coatta amministrativa cui sono state sottoposte le bad bank.

Senza scendere nel dettaglio delle motivazioni delle decisioni dei Tribunali (che escludono l’applicabilità dell’art. 2560 c.c. per contrasto con l’art. 58 T.u.b., e dunque il regime ordinario della cessione d’azienda), vale la pena segnalare che la dottrina più attenta ritiene tali argomentazioni giuridicamente discutibili. Non resta dunque che vedere se il filone giurisprudenziale si consoliderà e se queste decisioni saranno confermate anche da altre corti territoriali.

Le banche venete: Intesa Sanpaolo sì, no, forse

Come abbiamo visto, la situazione delle due banche venete è diversa, anche se non cambia la problematica che i risparmiatori si trovano ad affrontare: nei confronti di chi agire per chiedere i danni da perdita di valore delle azioni? Le norme previste nel D.L. n. 99/2017, che ha aperto la liquidazione delle due banche, sembrano chiare nell’escludere che siano state cedute ad Intesa sia le controversie relative a fatti anteriori alla cessione ma iniziate successivamente, sia i debiti per i risarcimenti agli azionisti raggirati (cfr. art. 3).

Tuttavia questa norma, accusata da più parti di presentare profili d’illegittimità costituzionale, ha dovuto fare i conti con alcune interpretazioni dei Tribunali che ne hanno ridefinito la portata applicativa. Il primo a operare in tal senso è stato il G.u.p. del Tribunale di Roma, con ordinanza del 28.01.2018, che ha autorizzato la citazione, in qualità di responsabile civile, di Banca Intesa Sanpaolo nel processo penale a carico degli ex vertici di Veneto Banca. A fondamento di questa decisione, il Giudice ha praticamente disapplicato la lett. b) dell’art. 3 del D.L. n. 99/2017 (che esonera da responsabilità la cessionaria) ritenendo di doverla interpretare in modo conforme a costituzione (e cioè ritenendo che essa valga solo nei rapporti interni tra banche cedenti ed Intesa, non anche nei confronti dei terzi estranei alla cessione).

Sempre in ambito penale, di avviso opposto è stato il G.i.p. del Tribunale di Vicenza nel processo nei confronti degli ex amministratori di Banca Popolare di Vicenza. In questo caso, con ordinanza dell’8.02.2018, la chiamata di Intesa Sanpaolo quale responsabile civile non è stata ammessa.

Dal punto di vista civile, invece, il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 14.03.2018 ha sposato la tesi del G.u.p. di Roma, ritenendo che Intesa Sanpaolo possa essere chiamata a rispondere nell’azione risarcitoria intrapresa nei confronti di Veneto Banca. Le argomentazioni sono le medesime: le deroghe introdotte con la normativa della liquidazione coatta amministrativa non valgono per i creditori delle banche poste in liquidazione.

Si tratta di una situazione in forte divenire, con molte problematiche giuridiche da risolvere. Anche la dottrina più autorevole, che ha fin da subito rilevato la potenziale tensione con la legittimità costituzionale del D.L. n. 99/2017, si sta interrogando sulle concrete possibilità rimesse ai risparmiatori raggirati. Questi si muovono tra una procedura di liquidazione, che molto probabilmente non porterà loro alcun vantaggio, e la possibilità di agire nei confronti di Intesa Sanpaolo. La soluzione non è dietro l’angolo, nell’attesa che altri tribunali si pronuncino e che – chissà – la questione non arrivi davvero davanti alla Corte costituzionale.

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Brevi news su temi già affrontati

Banche, responsabilità del medico, unioni civili, novità in tema di concordato preventivo, diritto all’oblio: negli scorsi mesi abbiamo trattato molte tematiche in costante evoluzione. Cerchiamo di vedere brevemente cosa è successo di significativo in questi ultimi mesi.

Alcune notizie sulle banche

Il diritto bancario ha caratterizzato le nostre news, che hanno prima dato conto del c.d. decreto banche e poi analizzato la disciplina dell’anatocismo bancario alla luce delle ultime riforme. La scelta di rendere conto solo delle novità normative – e non di quelle più strettamente economiche o politiche – è inevitabile, dato il grande risalto che i media nazionali danno ogni giorno agli ambiti meno giuridici della questione. Al tempo stesso – fra voci che si rincorrono ed evoluzioni quotidiane – qualsiasi resoconto della situazione rischia di nascere già superato. Ragion per cui abbiamo deciso di dare conto soltanto di alcune notizie recenti, importanti e aventi risvolti significativi sui risparmiatori.

In primo luogo, in seguito al fallito aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena, il Governo ha varato, lo scorso 23 dicembre, il c.d. decreto salva risparmio (D.L. n. 237/2016). Si tratta di poco più di uno schema, che dovrà essere integrato, attuato e specificato in seguito alla conversione in Legge. Alcune misure, però, risultano subito evidenti, a partire dalla creazione di un fondo di € 20 miliardi, cui il Governo potrà attingere per singoli interventi su capitale e liquidità degli istituti di credito. Inoltre, il Governo potrà garantire – a fronte del pagamento di una commissione – l’emissione di nuove obbligazioni da parte di banche in difficoltà, che per il sottoscrittore prenderanno il grado di rischio dello Stato e non dell’emittente. Per Monte dei Paschi di Siena, in particolare, si prevede una ricapitalizzazione precauzionale e temporanea, con lo Stato che diventerà azionista della banca per poi rivendere le quote sul mercato una volta avvenuto il risanamento. Ciò consentirà al Ministero dell’Economia di dettare il nuovo piano industriale dell’istituto. Al tempo stesso, il Decreto Legge chiama a contribuire gli obbligazionisti subordinati, i cui titoli saranno convertiti in azioni al prezzo del 75% del valore nominale (ma è del 100% per le obbligazioni Tier 2, vendute alla clientela retail). Non si tratta di bail in, non applicabile in caso di sostegno pubblico straordinario, ma del cosiddetto burden sharing. In altre parole: gli obbligazionisti subordinati condivideranno parte delle perdite della banca.

In secondo luogo, è inevitabile uno sguardo alla Banca Popolare di Vicenza, molto presente sul territorio pratese in seguito all’incorporazione della Cassa di Risparmio di Prato. A tal proposito, mentre continuano a rincorrersi le voci di una fusione con Veneto Banca e dell’inevitabile aumento di capitale (con un versamento di € 600 milioni già anticipato dal Fondo Atlante), il Consiglio di Amministrazione della Banca ha presentato un piano di rimborso ai soci che hanno visto ridurre il valore delle proprie azioni da € 62,50 ad € 0,01. Le somme offerte si attestano sul 15% del valore delle azioni, da accettare entro fine marzo, rinunciando al tempo stesso a qualunque azione di rivalsa nei confronti dell’istituto. Pare che al rimborso si aggiungeranno offerte commerciali e condizioni economiche dedicate, che potrebbero far salire il corrispettivo rimborsato fino al 30%. Tuttavia, affinché il rimborso scatti, dovrà aderire alla proposta transattiva almeno l’80% dei soci interessati.

Inoltre, è opportuno dare conto dell’entrata in funzione, lo scorso 9 gennaio, dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie (A.C.F.), istituito presso la Consob. Si tratta di un organismo che avrà competenza sui servizi d’investimento, e dunque anche in materia di acquisti effettuati dal risparmiatore in presenza di violazioni delle norme di diligenza, correttezza e trasparenza a carico dell’intermediario. Il funzionamento è simile a quello dell’Arbitro Bancario Finanziario, per cui in seguito ad un reclamo scritto l’investitore potrà sottoporre la questione ad un collegio arbitrale, in modo del tutto gratuito. La decisione non preclude la via del Tribunale, ma è vincolante per l’intermediario finanziario, che è obbligato a partecipare al provvedimento.

Infine, una curiosità: è stata recentemente presentata alla Camera dei Deputati una proposta di Legge che modificherebbe l’art. 612-bis del Codice penale (è la norma sul c.d. stalking), punendo lo stalking bancario, e cioè condotte persecutorie e aggressive realizzate nei confronti dei cittadini dalle società di recupero crediti che lavorano per conto di banche, società finanziarie e grandi aziende.

Su diritto alla salute e responsabilità del medico

Il disegno di Legge Gelli – Bianco, di cui avevamo dato conto nella prima newsletter e che ridefinisce i confini della responsabilità civile e penale del medico, ha conosciuto un’accelerazione lo scorso mese di novembre, quando è stato approvato dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato. Dal 24 novembre scorso il testo si trova all’esame del Senato (n. 2224) ed è attualmente difficile, stante il clima politico e le diverse priorità economiche e sovranazionali, fare previsioni sulla sua approvazione in tempi brevi.

Nell’attesa di normative più chiare e definite, la giurisprudenza continua a delineare i confini della responsabilità del medico. La recente sentenza n. 22639/2016 della Cassazione ha stabilito che, in caso di tenuta negligente della cartella clinica, spetta al medico provare che le eventuali complicanze dannose insorte nel paziente non sono dovute al suo comportamento. In altre parole, la lacunosa compilazione della cartella clinica non esclude il nesso di causa tra condotta del medico e danno subito dal paziente; anzi, la giurisprudenza vi riconosce una presunzione di nesso causale a sfavore del sanitario. Cosicché spetterà a quest’ultimo, per il principio di vicinanza della prova, dimostrare che tale nesso non sussiste nel caso di specie.

I decreti attuativi delle unioni civili

Il 14 gennaio sono stati approvati in via definitiva dal Consiglio dei Ministri tre decreti legislativi attuativi della L. n. 76/2016 sulle unioni civili. Ognuno disciplina un ambito diverso: adeguamento delle norme in materia di stato civile, con riferimento ad iscrizioni e trascrizioni; modifica e riordino delle norme di diritto internazionale privato; disposizioni di coordinamento in materia penale.

Prima dell’approvazione definitiva, i tre decreti attuativi (approvati in via preliminare lo scorso 4 ottobre) hanno ottenuto il parere delle competenti Commissioni parlamentari. Seppur con un piccolo ritardo, si è dunque superato il regime transitorio e si è scongiurato il rischio dell’impossibilità di nuove unioni.

Il termine dell’iter era infatti previsto il 5 dicembre scorso, e il D.P.C.M. n. 144/2016 (c.d. decreto ponte) prevedeva disposizioni transitorie fino all’entrata in vigore dei decreti definitivi, per il quale il Governo aveva un termine di sei mesi (art. 1, comma 28, L. n. 76/2016). Il Consiglio di Stato, nel parere n. 1695/2016, aveva espressamente escluso l’efficacia del decreto ponte nel caso in cui il Governo non avesse approvato i decreti attuativi definitivi entro il termine previsto dalla Legge.

Con la recente approvazione da parte del Governo, le unioni civili sono ormai una realtà ben definita nel nostro ordinamento.

Il concordato preventivo e l’estensione per legge della falcidia i.v.a.

Sempre nella scorsa newsletter ci eravamo soffermati su di una pronuncia della Corte di Giustizia UE (Causa C-546/2014), che aveva smentito la giurisprudenza nazionale circa la possibilità di proporre domande di concordato preventivo che non prevedessero un soddisfacimento integrale del credito i.v.a. dello Stato.

Sulla scia della pronuncia sovranazionale, le Sezioni Unite della Cassazione, con le sentenze n. 26988/2016 e n. 760/2017, hanno stabilito che il credito i.v.a. non è falcidiabile solo in caso di transazione fiscale, dunque respingendo l’interpretazione a tutto campo della norma di cui all’art. 182-ter L. fall.

Ebbene, nell’attesa della riforma organica del diritto della crisi d’impresa predisposta dalla Commissione Rordorf ed attualmente in discussione in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, la Legge di Bilancio 2017 – da poco pubblicata in Gazzetta Ufficiale – ha modificato l’art. 182-ter della Legge Fallimentare. L’intervento pone fine alle incertezze interpretative, stabilendo che anche in caso di transazione fiscale è possibile soddisfare parzialmente il credito per i.v.a. e ritenute. Viene meno, quindi, la norma che era stata interpretata estensivamente e che rendeva impossibile, in certi casi, falcidiare il credito dello Stato per le suddette imposte. Da oggi, qualora il piano proposto dal debitore preveda una soddisfazione del credito i.v.a. dello Stato “in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) della Legge fallimentare” nessun ostacolo sussiste alla falcidia.

Il diritto all’oblio e i suoi limiti

Nella scorsa newsletter avevamo ricordato la legge sul cyberbullismo in discussione al Senato dopo l’approvazione del testo da parte della Camera dei Deputati. Come per il disegno di Legge in materia di responsabilità medica, anche su questo testo – per la verità molto discusso – è impossibile fare previsioni circa i tempi di approvazione, soprattutto nel caso in cui il Senato decidesse di apportarvi modifiche.

Nel frattempo si segnala il provvedimento del Garante della Privacy del 6.10.2016, che ha ribadito come il diritto all’oblio debba soccombere innanzi all’interesse del pubblico alla conoscenza di una vicenda che abbia ad oggetto un reato grave. La questione riguardava un soggetto condannato per reati di corruzione e truffa in danno della pubblica amministrazione, che si era rivolto al Garante per chiedere la de-indicizzazione di articoli sul web che riguardavano la sua vicenda, conclusasi quattro anni prima. Il Garante ha respinto la richiesta, ritenendo che la gravità dei reati e il breve periodo di tempo trascorso dalla sentenza possano giustificare l’interesse del pubblico ad accedere agli articoli; interesse del pubblico che, in questo caso, prevale su quello del condannato alla rimozione della notizia.

La crisi da sovraindebitamento: disciplina e prospettive

La L. n. 3/2012 (successivamente modificata dal D.L. n. 179/2012, convertito nella L. n. 221/2012) ha introdotto la disciplina di composizione delle crisi da sovraindebitamento, nota anche col nome di fallimento del consumatore. L’intento dichiarato è quello di fornire a soggetti non fallibili, gravati da plurimi debiti, uno strumento per sistemare e cancellare tutte le proprie pendenze, consentendo loro d’immettersi di nuovo nel mercato.

La disciplina riprende istituti tipici del diritto della crisi d’impresa, con norme che ricordano ora le disposizioni del concordato preventivo, ora del fallimento, ed introduce per la prima volta nel nostro ordinamento la figura dell’Organismo di Composizione della Crisi (O.C.C.), che sta muovendo i primi passi recentemente anche nella città di Prato. Questo organismo avrebbe il compito di affiancare, grazie all’apporto di professionisti esperti nella gestione di insolvenza e ristrutturazioni, il debitore lungo tutto l’arco della procedura.

Chi può accedere alla procedura, e quando?

La procedura è applicabile al c.d. debitore civile (soggetti non fallibili né assoggettabili a procedure concorsuali, come ad esempio piccoli imprenditori, imprenditori agricoli, ma anche start up innovative, associazioni e fondazioni) e al consumatore, sempre che non abbiano fatto ricorso a una procedura nei cinque anni precedenti.

Per sovraindebitamento la L. n. 3/2012 intende “la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente” (cfr. art. 6, secondo comma). Si tratta, dunque, di uno squilibrio finanziario che sia in grado di determinare uno stato d’insolvenza o di crisi, reversibile o irreversibile.

Quali sono le possibilità per superare la crisi?

Per comporre situazioni del genere la legge individua tre possibilità: l’accordo del debitore, il piano del consumatore (riservato solo a chi ha questa qualifica e la liquidazione del patrimonio.

L’accordo ha per oggetto la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti in base ad un piano che poi dovrà essere approvato dai creditori. Se la percentuale dei creditori favorevoli raggiunge il 60% e viene omologato dal Tribunale, l’accordo diventa vincolante per tutti i creditori. Si tratta di una procedura a controllo giudiziario e basata sull’apporto di organismi specializzati di sostegno (il già citato Organismo di Composizione della Crisi), che per alcuni versi ricorda il concordato preventivo.

Il piano del consumatore, riservato solo a chi è tale, e quindi ha assunto obbligazioni al di fuori dell’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, prescinde dall’approvazione dei creditori. Si tratta di un piano di ristrutturazione che dovrà essere omologato dal Tribunale previa valutazione sulla sua legittimità, fattibilità e convenienza. Una volta approvato dal giudice, il piano vincola tutti i creditori.

Se questi primi due strumenti non sono percorribili per vari motivi, l’alternativa è la liquidazione del patrimonio, una procedura simile al fallimento, con la formazione di uno stato passivo e un’attività di liquidazione formalizzata in un programma.

Particolarmente importante è la possibilità, conseguente alla liquidazione, di chiedere, entro un anno dalla chiusura della procedura, l’esdebitazione. Si tratta della liberazione dei debiti residui che dovessero residuare nei confronti dei creditori concorsuali e non soddisfatti, in grado dunque di consentire al debitore il fresh start, ossia la sua nuova immissione nel mercato libero da debiti. La legge richiede, però, dei requisiti, tra cui si menzionano l’aver cooperato allo svolgimento della procedura, il non aver beneficiato di altra esdebitazione negli otto anni precedenti alla domanda e il non aver compiuto atti in frode ai creditori nei cinque anni precedenti l’apertura della liquidazione.

I punti critici e gli sviluppi futuri

Da queste poche note s’intravede già la complessità dei percorsi per uscire dalla crisi. Ciò, unito alla tardività con cui è stato attuato il dettato legislativo, hanno trasformato uno strumento pensato per essere semplice e agevole per il consumatore in un mezzo farraginoso e costoso, tanto che le procedure ad oggi avviate sono veramente poche. Una persona fisica gravata da molti debiti, magari proprietaria di un solo immobile, non può sacrificare i propri mezzi – già inidonei a soddisfare integralmente i creditori – per sostenere i costi di una procedura che coinvolge inevitabilmente numerosi professionisti. Tanto varrebbe attendere gli esiti di un’eventuale esecuzione forzata.

Inoltre, vi sono criticità relative al ridotto campo di ammissibilità dell’esdebitazione, all’impossibilità di falcidiare il credito i.v.a. dello Stato e all’alta percentuale dei creditori necessari per l’approvazione dell’accordo.

Di queste ultime considerazioni ha tenuto conto la Commissione Rordorf, nell’elaborazione di un disegno di riforma organico delle procedure concorsuali, approvato come disegno di legge delega dal Consiglio dei Ministri nel marzo 2016. Tra le altre cose, si prevede un allargamento della platea di soggetti ammessi all’esdebitazione, prevedendo che anche le persone giuridiche possano beneficiarvi; inoltre, sono previste esclusioni e possibilità di conversione delle procedure in quella liquidatoria in caso di frode o inadempimento; viene poi riconosciuta l’iniziativa per l’apertura delle procedure liquidatorie, pure in presenza di procedure esecutive individuali, anche ai creditori e al pubblico ministero, se l’insolvenza riguarda un soggetto imprenditore.

Difficile che il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento delle crisi d’impresa possa vedere la luce entro la fine della corrente legislatura. Anche perché uno stop potrebbe essere utile per varare una disciplina già in linea con le nuove prospettive europee. Infatti, sarà discussa entro la fine del corrente mese dai competenti organi dell’Unione Europea la proposta di direttiva, presentata lo scorso novembre, avente ad oggetto standard minimi da osservare negli Stati membri in materia di ristrutturazione e seconda possibilità (c.d. fresh start) per gli imprenditori in crisi. Si tratta di un provvedimento di cui il legislatore delegato italiano dovrà inevitabilmente tenere conto.

Verso la fine dell’anatocismo bancario

Il termine “anatocismo”, di difficile comprensione per il non giurista, indica il fenomeno della capitalizzazione degli interessi. Si tratta del meccanismo per cui gli interessi scaduti su di una somma dovuta sono sommati al capitale sul quale erano stati calcolati (si capitalizzano, appunto) e sono dunque suscettibili di produrre a loro volta interessi. Questa vera e propria produzione d’interessi sugli interessi è un fenomeno col quale si sono spesso scontrati i risparmiatori, che hanno visto crescere sempre di più nel tempo il loro debito verso le banche. Sono queste, infatti, i soggetti che hanno spesso applicato capitalizzazioni (anche trimestrali) degli interessi su somme concesse a mutuo o sugli scoperti di conto corrente. Oltre ad essere identificato da una parola complessa, l’anatocismo è anche un istituto che, a causa della disciplina giuridica che lo ha caratterizzato, ha provocato numerose incertezze applicative da parte degli operatori del settore e, conseguentemente, un alto contenzioso nei Tribunali.

La notizia dell’estate appena trascorsa è che l’anatocismo sembra essere diventato un istituto giuridico in via di estinzione. Infatti, il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (C.I.C.R.) ha approvato il 3 agosto 2016 la delibera n. 343, che detta le norme regolamentari di attuazione della riforma dell’art. 120 del D.Lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario) operata con il D.L. n. 18/2016, convertito nella Legge n. 49/2016.

Cosa prevede la nuova disciplina?

Tralasciando tutti i dubbi che possono sorgere circa l’applicabilità del nuovo testo dell’art. 120 T.U.B. ai contratti bancari in corso, la disposizione di Legge è abbastanza chiara. Oggetto di modifica, infatti, è stato il secondo comma, che nel testo riformato prevede nei rapporti bancari la medesima periodicità nel calcolo degli interessi creditori e debitori, con periodicità comunque non inferiore ad un anno, nonché l’espresso divieto di anatocismo, eccezion fatta per gli interessi di mora. La delibera C.I.C.R. del 3 agosto 2016, che è chiamata dallo stesso art. 120 T.U.B. ad attuare la previsione di Legge, si pone in questa stessa linea, prevedendo il divieto di capitalizzazione degli interessi, tranne nel caso d’interessi di mora. Al risparmiatore è poi garantito un periodo di trenta giorni prima che gli interessi maturati diventino esigibili. La delibera del C.I.C.R. prevede che dal 1 ottobre 2016 le nuove aperture di credito in c/c, comprese le operazioni di anticipo su crediti e documenti, gli sconfinamenti e i contratti già in essere, dovranno adeguare le proprie clausole alla nuova disciplina normativa dell’art. 120 T.U.B. Sembra, dunque, che si sia messa la parola fine ad una vicenda durata anni.

Ogni rapporto bancario sarà privo di anatocismo?

La riforma semplificherà molto il contenzioso legato alle incertezze applicative della normativa, ma non si può dire che la capitalizzazione degli interessi sparirà da ogni ambito del rapporto banca-cliente. In particolare, abbiamo appena notato che dell’art. 120 T.U.B. riscritto dal D.L. 18/2016 (nonché la delibera n. 343 del C.I.C.R.) ha mantenuto la possibilità di capitalizzazione degli interessi di mora. In concreto ciò significa che l’interesse corrispettivo previsto – ad esempio – nella rata del mutuo, al momento dell’inadempimento del mutuatario si capitalizza, cosicché sull’intero importo (capitale + interesse corrispettivo della rata) dovrà essere calcolato l’interesse di mora dovuto. Come accennato sopra, è questo il fenomeno dell’anatocismo: interessi che producono a loro volta interessi.

Inoltre, circa la previsione contenuta nell’art. 120 T.U.B. che consente al correntista di autorizzare l’addebito degli interessi scaduti sul conto corrente, gli interpreti più attenti hanno ritenuto che in alcuni casi si potrebbe continuare a parlare di anatocismo. Infatti, il secondo comma dell’art. 120 T.U.B. prevede che gli interessi scaduti siano considerati, dal momento dell’addebito, sorte capitale e sottoposti al relativo regime. In questo ambito, in caso di incapienza del fido, vi è chi ritiene che si possa parlare di capitalizzazione, tuttavia legittima perché prevista da una norma di Legge.

Permangono, infine, alcuni dubbi su quale sia la disciplina applicabile ai contratti bancari stipulati tra l’entrata in vigore della Legge di stabilità 2014 (1 gennaio 2014) e quella della riforma del 2016 (15 aprile 2016).

Se la delibera del 3 agosto 2016 è il punto d’arrivo della normativa, e dunque ciò che dal prossimo ottobre disciplinerà l’ambito bancario, è opportuno dare conto dell’evoluzione e delle varie riforme che si sono susseguite negli anni, causando una serie di incertezze che hanno portato ad un significativo incremento del contenzioso. Le stesse incertezze sull’applicazione del nuovo art. 120 T.U.B. ai contratti stipulati tra il 1 gennaio 2014 e il 15 aprile 2016, di cui abbiamo appena dato conto, sono figlie dei contrasti sorti sotto la disciplina previgente.

Vediamo allora di ripercorrere nel modo più breve possibile le tappe dell’evoluzione normativa in materia di anatocismo.

La disciplina codicistica e la sua applicazione fino al 1999.

L’anatocismo è disciplinato dall’art. 1283 Cod. civ., il quale dispone che “In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.”. Come si può notare, la produzione di interessi sugli interessi è ritenuta dalla Legge un caso eccezionale, consentito solo in presenza di un’apposita domanda giudiziale, di un accordo tra le parti successivo alla scadenza degli interessi medesimi o in caso di esistenza di usi contrari.

Proprio con riferimento a questi ultimi, per lungo tempo la giurisprudenza della Cassazione aveva ritenuto che si potessero considerare tali le Norme Bancarie Uniformi predisposte dall’A.B.I. Ne era conseguito di ritenere legittime le prassi in voga nei contratti bancari, che prevedevano una capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori (mentre per quelli creditori la capitalizzazione avveniva con cadenza annuale), in deroga al dettato del Codice civile. In altre parole, in campo bancario l’art. 1283 Cod. civ. non valeva, derogato da quelli che erano ritenuti usi normativi e che andavano inevitabilmente a sfavore del risparmiatore.

Il cambio di prospettiva.

Solo nel 1999, con le sentenze nn. 1096 e 2374, la Corte di Cassazione ha completamente ribaltato l’assunto per cui le Norme Bancarie Uniformi sarebbero usi normativi, in grado quindi di derogare al dettato dell’art. 1283 Cod. civ. Essendo predisposte da un’associazione di categoria (l’A.B.I.), le Norme Bancarie Uniformi non hanno – per la Cassazione – natura di usi normativi ma solo pattizia, nel senso di essere mere proposte di condizioni generali di contratto, indirizzate dall’associazione di categoria ai singoli associati. La conseguenza di questo cambio di prospettiva è stata importantissima: poiché la capitalizzazione trimestrale (cioè l’anatocismo) non si poteva più ritenere basata su di un uso normativo, le clausole contrattuali che la prevedevano sono diventate nulle, non potendo le Norme Bancarie Uniformi derogare l’art. 1283 Cod. civ.

Gli interventi successivi del legislatore.

Le pronunce del 1999 erano in grado di aprire la strada ad un contenzioso bancario potenzialmente illimitato, stante l’enorme numero di contratti pendenti che – da un giorno ad un altro – presentavano un saldo contabile reso potenzialmente illegittimo dal calcolo di interessi anatocistici. Per questo, con il D.Lgs. n. 432/1999 è stata disposta – intervenendo sull’art. 120 del T.U.B. – la validità delle clausole anatocistiche pattuite fino a quel momento, nonché la previsione che, per il futuro, le modalità dell’anatocismo fossero determinate con regolamento del C.I.C.R. Ed ecco che, con la delibera del 9 febbraio 2000, il C.I.C.R. ha stabilito la possibilità per le banche di prevedere una capitalizzazione degli interessi anche infrannuale, purché: sia la medesima per gli interessi a debito e a credito; sia prevista contrattualmente ed approvata per iscritto dal risparmiatore. La delibera stabiliva anche tempi e modi con i quali i contratti pendenti che prevedevano clausole anatocistiche si sarebbero dovuti adeguare alla nuova disciplina.

Tuttavia la Corte costituzionale, con la sentenza n. 425/2000, ha dichiarato incostituzionale per eccesso di delega la norma del D.Lgs. n. 432/1999 che consentiva, in attesa della delibera attuativa del C.I.C.R., una validazione retroattiva e transitoria delle clausole anatocistiche presenti nei vecchi contratti bancari. Ne è conseguito un vero e proprio spartiacque ad opera della delibera C.I.C.R.: prima di essa ai contratti bancari pendenti si doveva applicare l’art. 1283 Cod. civ., per cui tutte le clausole anatocistiche ivi previste dovevano essere ritenute nulle; dopo la delibera, entrata in vigore il 22 aprile 2000, le clausole anatocistiche erano ritenute valide nei termini sopra ricordati e salva la possibilità di adeguamento dei contratti pendenti con modalità e tempi previsti dalla delibera stessa (e non esenti da molti dubbi interpretativi).

La legge di stabilità 2014.

Con lo scopo di stabilire un più ampio divieto di anatocismo in ambito bancario, il legislatore è successivamente intervenuto con la Legge di stabilità 2014 (L. n. 147/2013), modificando ancora l’art. 120 T.U.B. La riforma, nel continuare a demandare alla fonte regolamentare del C.I.C.R. la disciplina specifica delle modalità di produzione degli interessi nelle operazioni bancarie, aveva operato una certa confusione terminologica, pur con lo scopo dichiarato di porre fine al fenomeno dell’anatocismo. Da un lato, infatti, era stata prevista la medesima periodicità nella contabilizzazione e nella liquidazione degli interessi, mentre dall’altro la disposizione continuava a parlare – in modo improprio secondo molti – di capitalizzazione. A ciò si aggiunga che il successivo D.L. n. 91/2014 (Decreto competitività) aveva nuovamente modificato l’art. 120 T.U.B., reintroducendo espressamente la possibilità di capitalizzare gli interessi. Previsione che poi non ha resistito in sede di conversione del Decreto (L. n. 116/2014), all’esito di polemiche politiche che hanno avuto un certo risalto anche sulla stampa nazionale.

A fronte di quella che appariva come la volontà politica di eliminare l’anatocismo bancario, pur a fronte di un testo che continuava a menzionare – seppur impropriamente, a detta degli interpreti – la capitalizzazione degli interessi, rimaneva in vigore una fonte di attuazione regolamentare non aggiornata, e cioè la vecchia delibera C.I.C.R. del 9 febbraio 2000. Da ciò è derivata un’importante divergenza interpretativa tra la giurisprudenza maggioritaria e una parte della dottrina, supportata dal Consiglio Nazionale del Notariato. La giurisprudenza maggioritaria riteneva che la fonte primaria prevalesse e che pertanto ogni capitalizzazione degli interessi successiva all’entrata in vigore della Legge di stabilità 2014 (1 gennaio 2014) fosse da ritenere illegittima. Parte della dottrina, invece, riteneva che, in attesa della nuova delibera C.I.C.R. attuativa dell’art. 120 T.U.B. riformato, la capitalizzazione degli interessi effettuata nel frattempo fosse da ritenere valida ed efficace.

A fronte di questa significativa incertezza, foriera anche di soluzioni contrastanti a seconda dei vari Tribunali chiamati a pronunciarsi sulle clausole anatocistiche dei contratti bancari, la Banca d’Italia aveva proposto uno schema di delibera da sottoporre al C.I.C.R. Le osservazioni in esso contenute sembrano oggi aver trovato accoglimento con il D.L. 18/2016 e con la delibera n. 343 del 3 agosto 2016 che, si spera, riescano a mettere la parola fine ad anni di indecisioni normative ed interpretative.

Il c.d. Decreto Banche (D.L. n. 59/2016)

Lo scorso 3 maggio è stato emanato un Decreto Legge che contiene numerose modifiche alle procedure di esecuzione forzata e concorsuali, avendo introdotto anche alcuni nuovi istituti in materia di garanzia del credito. Si è parlato di “Decreto banche” perché le modifiche che hanno un impatto maggiore per il cittadino riguardano proprio il settore bancario, prevedendo anche alcune misure per i risparmiatori che hanno perduto il capitale investito in obbligazioni subordinate di alcuni istituti di credito.

Come già avvenuto per le modifiche che hanno interessato il processo esecutivo negli anni scorsi, l’ottica in cui si è mosso il legislatore è strettamente economica, tanto che il testo di conversione del Decreto Legge – approvato in prima lettura al Senato con voto di fiducia il 9 giugno scorso – è stato in discussione in Commissione Finanze (e non presso quella Giustizia). Il fatto è che le esecuzioni, in particolare quelle immobiliari, hanno una durata eccessiva. Basti pensare che, secondo le stime di Mediobanca Securities, in Italia le procedure hanno una durata media di più di sette anni, mentre in Austria, Germania e Polonia si chiude tutto in uno-due anni. Al tempo stesso le procedure esecutive valgono nel complesso un paio di miliardi di Euro. Si tratta di liquidità dovuta soprattutto al ceto bancario, che da una maggior speditezza dei processi potrebbe trarre risorse da immettere – almeno questo è l’auspicio – nel mercato del credito.

Cerchiamo brevemente di capire, quali novità contiene questo Decreto Legge, detto anche “Decreto di San Filippo” (dal santo del giorno di emanazione), così come modificato dal Senato in vista della sua conversione in Legge, concentrandoci per ora sulle norme più strettamente collegate al diritto bancario, tralasciando le modifiche al processo di esecuzione, che peraltro sono molto tecniche.

Il pegno non possessorio.

L’art. 1 del Decreto di San Filippo ha introdotto una nuova garanzia che può essere concessa dagli imprenditori iscritti nel registro delle imprese. Si tratta di un particolare tipo di pegno, che viene concesso mediante atto scritto e pubblicato in un apposito registro informatico tenuto dall’Agenzia delle entrate. Con questa pubblicità il pegno prende grado e diviene opponibile ai terzi e alle procedure concorsuali.

La finalità di questo nuovo istituto, che affonda le sue radici nel mondo giuridico statunitense, è quella di ampliare le garanzie che le imprese possono fornire agli istituti di credito senza sottrarre i beni dati in garanzia al ciclo produttivo.

Questo si capisce dal fatto che il pegno non possessorio può essere utilizzato solo per garantire i crediti concessi all’imprenditore inerenti alla sua attività d’impresa, siano essi crediti presenti o futuri, determinati o determinabili. Al tempo stesso i beni dati in pegno possono essere solo beni mobili non registrati destinati all’attività d’impresa, anch’essi esistenti o futuri, determinati o determinabili anche con riferimento ad una o più categorie merceologiche. Il Senato ha introdotto la possibilità di garantire anche crediti concessi ad un terzo e di vincolare anche beni immateriali come brevetti o crediti. Venendo meno la caratteristica fondamentale del pegno tradizionale, ossia lo spossessamento da parte del creditore, i beni oggetto di garanzia potranno continuare ad essere utilizzati dall’imprenditore nella sua attività.

Salvo espressa eccezione, l’imprenditore potrà anche trasformare o alienare i beni dati a pegno, perché in questo caso la garanzia si trasferisce sul risultato della trasformazione o sul corrispettivo per l’alienazione.

In caso d’inadempimento del debitore, il creditore (soprattutto le banche, come abbiamo accennato), potrà procedere alla vendita dei beni oggetto di pegno, a escutere i crediti oggetto di pegno fino a concorrenza della somma garantita, a locare i beni o addirittura ad appropriarsene, sempre fino a concorrenza della somma garantita. Il tutto previo avviso scritto al debitore e nel rispetto di particolari modalità esecutive previste dalla legge e dal contratto con cui il pegno medesimo è costituito.

Insomma, gli imprenditori avranno la possibilità di fornire maggiori garanzie per ottenere credito senza perdere il possesso dei beni inerenti l’impresa, mentre i creditori potranno contare su un nuovo istituto che dovrebbe velocizzare il recupero in caso di insolvenza.

Il patto marciano.

Tecnicamente l’art. 2 del Decreto banche parla di “Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato”, ma in altre parole il Governo ha introdotto all’interno del D. Lgs. n. 385/1993 (Testo unico bancario) un art. 48-bis che prevede proprio il patto marciano. Finora sconosciuto alla legislazione positiva e probabilmente risalente ad un’alterazione giustinianea di un testo del giurista Marciano (II-III Secolo d.C.), questo accordo permetteva al creditore insoddisfatto di appropriarsi della cosa ricevuta in garanzia, purché fosse stimata nel giusto prezzo.

In poche parole è quanto prevede anche il nuovo art. 48-bis del T.u.b., rendendo possibile che un contratto di finanziamento concesso da una banca ad un imprenditore sia garantito dal trasferimento della proprietà di un bene immobile o di un altro diritto immobiliare dell’imprenditore a favore della banca o di una società di gestione ad essa collegata. Tale trasferimento non avviene subito, ma è sospensivamente condizionato all’inadempimento dell’imprenditore-debitore.

In sostanza, se il debitore non paga per un periodo di tempo diverso a seconda del tipo di finanziamento (periodo di tempo che è stato allungato in prima lettura dal Senato e che, ad esempio, per chi ha già rimborsato l’85% del finanziamento ricevuto prevede un termine di dodici mesi dopo il mancato pagamento di tre rate, anche non consecutive), la banca può notificargli l’intenzione di avvalersi del patto. A questo punto – semplificando il più possibile anche a costo di essere giuridicamente imprecisi – il creditore chiederà al Presidente del Tribunale la nomina di un perito per la stima dell’immobile. Se il valore del bene immobile è superiore a quello del credito, la banca dovrà restituire al debitore l’eccedenza in denaro. Al momento della comunicazione della stima, o del versamento all’imprenditore della differenza nel caso in cui l’immobile valga più del credito, si avvera la condizione sospensiva e dunque la proprietà dell’immobile passa alla banca.

Questa norma si applica anche ai finanziamenti già concessi ed in fase di rinegoziazione e anche nel caso in cui l’immobile oggetto di patto marciano sia stato sottoposto ad esecuzione immobiliare. In sostanza, si tratta di una possibilità per acquisire rapidamente beni immobili da parte delle banche, ma soprattutto da parte di società di gestione immobiliare da loro istituite ad hoc, così da poterne accelerare la liquidazione rispetto alle lunghe procedure esecutive. La garanzia per il debitore risiede nella perizia di stima effettuata da un esperto nominato dal Tribunale, dunque imparziale, e dal fatto che non possono essere oggetto di patto marciano gli immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti e affini entro il terzo grado.

Secondo il Ministro dell’Economia (ancora una volta a riprova della prospettiva cui si pone il legislatore quando mette mano a queste norme), l’introduzione di questo patto consentirà ai creditori di entrare in possesso dell’immobile in sette-otto mesi contro i quaranta mesi di media nazionale per le procedure di esecuzione immobiliare.

La convalida di sfratto per il rent to buy.

Interessante l’introduzione, operata con l’approvazione al Senato del testo di conversione del D.L. n. 59/2016, della possibilità per il proprietario di immobili di utilizzare il procedimento per convalida di sfratto anche nel caso in cui la locazione preveda il rent to buy. Questo particolare tipo di contratto, introdotto con il c.d. Decreto Sblocca Italia (D.L. n. 133/2014), prevede la possibilità di locare un bene immobile a un conduttore che ha anche diritto ad acquistarne la proprietà, imputando in conto prezzo i canoni pagati. La previsione della convalida di sfratto, introdotta nella fase di conversione del Decreto banche, mette fine al dibattito precedente, nato poiché, essendo il rent to buy un contratto atipico, era difficile ipotizzare un rimedio efficace e celere in caso di inadempimento del conduttore.

Le misure per i risparmiatori di Banca Etruria, CariChieti, Banca Marche e CariFerrara.

Il D.L. n. 59/2016 è soprannominato Decreto banche perché contiene anche un intervento per i risparmiatori in strumenti finanziari subordinati che hanno visto sfumare tutti i loro risparmi in seguito all’attivazione della procedura di risoluzione delle quattro banche in liquidazione lo scorso 22 novembre.

In sostanza, in via alternativa rispetto ad azioni innanzi ad un arbitro, si potrà seguire una procedura diretta con richiesta di rimborso al Fondo di Solidarietà istituito con la Legge di Stabilità 2016. Sono previsti numerosi paletti, per accedere a questa procedura.

Innanzitutto la tempistica: si potranno richiedere i rimborsi a partire da 60 giorni dopo la conversione in Legge del Decreto (dunque ad inizio luglio) ed entro sei mesi da tale data. Potranno fare richiesta i risparmiatori che avevano acquistato strumenti subordinati prima della data del 12 giugno 2014 (entrata in vigore della direttiva europea sul bail in) e che li possedevano alla data della messa in risoluzione della banca.

In secondo luogo deve sussistere una delle seguenti condizioni, autocertificate da chi propone la domanda: il risparmiatore deve avere un patrimonio mobiliare di valore inferiore a 100.000 € secondo i parametri Isee, oppure avere un reddito complessivo Irpef per il 2014 inferiore a 35.000 €.

Infine, il rimborso, essendo automatico, non sarà totale. L’investitore, infatti, potrà ottenere l’80% del corrispettivo pagato. Al netto, però, di oneri e spese sostenute, nonché della differenza, se positiva, tra il rendimento degli strumenti finanziari subordinati e il rendimento di mercato di un B.T.P. in corso di emissione di durata finanziaria equivalente oppure il rendimento ricavato tramite interpolazione lineare di B.T.P. in corso di emissione aventi durata finanziaria più vicina.

Questa procedura è alternativa e non cumulabile con quella arbitrale prevista di fronte all’Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC), che però ancora non è a regime, mancando alcuni decreti attuativi. La procedura arbitrale potrà portare ad ottenere rimborsi fino al 100% del capitale investito, purché vi siano i presupposti, in particolare la violazione degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza da parte della banca.

E per Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca?

Si tratta di casi diversi, che il Decreto banche non prende in considerazione. In questo caso, per la tutela dei propri diritti, i soci-risparmiatori non potranno che valutare azioni individuali, giudiziarie o arbitrali che siano. Ci limitiamo a segnalare che accanto ad una responsabilità degli amministratori è possibile che si configuri una responsabilità dell’istituto di credito. Naturalmente, è necessario che vi siano i presupposti per poter intraprendere simili azioni, che variano in base a ciò che è accaduto a ciascun risparmiatore.