La Legge fallimentare si avvia verso la pensione

Con l’approvazione da parte del Senato, lo scorso 19 ottobre, della Legge n. 155/2017 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 30 ottobre) il legislatore ha definitivamente intrapreso il percorso verso il pensionamento del diritto fallimentare così come lo conosciamo, che con riforme più o meno profonde è giunto fino ai giorni nostri dal 1942.

La Legge delega il Governo ad adottare entro un anno i Decreti legislativi necessari a riformare in modo organico le procedure concorsuali e la disciplina della crisi da sovraindebitamento, introdotta nel 2012. Ancora, dunque, l’iter non si è concluso; probabilmente spetterà al prossimo Governo adempiere la delega, sempre che non siano disposte proroghe. In ogni caso, si tratta di un traguardo importante, dato il processo di riforma iniziato nel gennaio 2015 con la creazione da parte del Ministro della Giustizia della c.d. Commissione Rordorf (dal nome del suo presidente, il Presidente aggiunto della Corte di Cassazione dott. Renato Rordorf), in vista di una disciplina unitaria, organica e coerente dell’insolvenza.

Un percorso di riforma ritenuto necessario da più parti, dato l’anacronismo della Legge fallimentare che, seppur riformata più volte anche in maniera significativa, mantiene un ruolo sistematico centrale alla procedura di fallimento; ruolo ritenuto non più adeguato agli attuali scenari economici ed imprenditoriali. Ed è proprio per eliminare l’aura di discredito che accompagna il fallito, mutando l’approccio al concetto di crisi, da vedere come evento fisiologico che può presentarsi durante il ciclo di vita di un’impresa, che addirittura sarà rimosso dai testi normativi il termine “fallimento”. Non è un caso che negli ultimi anni gli addetti ai lavori abbiano già iniziato a parlare di “diritto della crisi d’impresa”(non più di diritto fallimentare), in un certo senso anticipando per via terminologica la riforma organica che si sta progressivamente attuando.

Si tratta di tutt’altro che di un’operazione di facciata. L’approccio alla crisi come eventuale fase del ciclo di vita dell’impresa è la realtà in ambito internazionale, cui il nostro Paese si sta allineando. In quest’ottica è dato ampio spazio alle soluzioni negoziali della crisi e che assicurino continuità aziendale (per conservare i residui valori produttivi dell’impresa), sottraendo centralità sistematica alla procedura di fallimento, che in futuro si chiamerà liquidazione giudiziale e sarà vista come un’extrema ratio.

Una tappa importante verso la riorganizzazione della disciplina è costituita dalla previsione di una procedura unitaria di accertamento dello stato di crisi (che nei Decreti legislativi dovrà trovare una definizione che fino ad oggi il legislatore non ha mai dato) e di quello d’insolvenza, che segna la volontà di riforma organica del diritto della crisi, in contrasto con gli interventi frammentati ed emergenziali degli ultimi anni. Sarà fondamentale, a questo proposito, continuare a percorrere la strada della specializzazione dei giudici, di cui la Legge delega infatti si occupa attentamente.

Dal punto di vista procedurale, la riforma amplia sia il numero dei soggetti legittimati attivi ad intraprendere la nuova procedura di accertamento (tra i quali, ad esempio, i soggetti con funzione di controllo dell’impresa), sia i destinatari, che potranno essere tutti i debitori, siano essi privati o persone giuridiche, con la sola eccezione degli enti pubblici.

La procedura di accertamento della crisi è solo uno dei punti che il Governo dovrà concretamente attuare nei prossimi mesi; vediamo per sommi capi quali sono gli altri.

Le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi

Al fine di agevolare strumenti di composizione della crisi che non passino dalla liquidazione e dal Tribunale, la Legge delega prevede l’introduzione di procedure di allerta, conosciute come early warnings nel mondo anglosassone. Si tratta di uno strumento che dovrebbe servire a garantire un intervento tempestivo nella crisi, per evitare il suo aggravarsi e garantire la conservazione dei valori produttivi.

Nel quadro delineato dalla Legge delega, l’attivazione delle procedure di allerta (che sono escluse per società quotate e grandi imprese) è rimessa al debitore o agli organi di controllo interni societari, nonché a creditori qualificati (erario ed enti previdenziali) che hanno un vero e proprio obbligo di segnalazione. Mentre questi ultimi dovranno segnalare il perdurare d’inadempimenti di rilevante importo, gli organi societari, invece, dovranno attivarsi in presenza di fondati indizi di crisi (concetto la cui definizione sarà tutta da vedere).

L’attivazione spontanea porterà alla gestione della procedura da parte di un Organismo collegiale istituito presso la Camera di Commercio (la Commissione Rordorf attribuiva questo ruolo agli Organismi di Composizione della Crisi, istituiti nel 2012) che, in modo tempestivo e riservato, cercherà di trovare una soluzione concordata con i creditori nell’arco di sei mesi. Se la procedura è invece avviata d’ufficio, sarà il giudice a convocare – in via riservata e confidenziale – il debitore, affidando ad un esperto la composizione della crisi con i creditori. Qualora questa non sia possibile e sia certificato lo stato d’insolvenza, dovrà essere data notizia al Pubblico Ministero, per aprire la fase giudiziale di accertamento dello stato d’insolvenza. In realtà, quest’ultima eventualità non era prevista dalla Commissione Rordorf che, finalizzata a ricercare soluzioni stragiudiziali alla crisi, non aveva previsto il ricorso al giudice in caso di esito negativo della procedura di allerta.

Al debitore che avvia la procedura tempestivamente è stata riconosciuta la possibilità di chiedere misure di protezione per il tempo necessario a trovare una soluzione alla crisi, come ad esempio la sospensione delle azioni esecutive. Ad esso sono anche riconosciute alcune misure premiali, sia di natura patrimoniale che di carattere penale, ad esempio con la non punibilità di alcune fattispecie fallimentari di particolare tenuità.

Accordi di ristrutturazione dei debiti, piani attestati di risanamento e convenzioni di moratoria

Per quanto riguarda questi istituti, attualmente esistenti come soluzioni negoziali non concorsuali alla crisi d’impresa, la Legge delega non opera stravolgimenti ma detta importanti integrazioni della normativa vigente.

In particolare, il Governo dovrà rimuovere la soglia del 60% dei creditori per l’approvazione degli accordi di ristrutturazione in cui il debitore non proponga la moratoria dei creditori estranei né chieda misure di protezione del proprio patrimonio. Altra importante previsione è l’estensione della disciplina di cui al vigente art. 182-septies L. fall. all’accordo di ristrutturazione non liquidatorio o alla convenzione di moratoria conclusi con creditori, anche diversi da banche e intermediari finanziari, rappresentanti almeno il 75% dei crediti di una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee. Si tratta, nel caso dell’art. 182-septies L. fall., di una disciplina introdotta nel 2015 e riservata agli accordi di ristrutturazione intercorsi con banche e intermediari finanziari; disciplina che consente l’estensione degli effetti dell’accordo, a particolari condizioni, anche ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria omogenea.

Infine, è prevista l’estensione agli accordi di ristrutturazione delle misure protettive previste nel concordato preventivo, nonché la possibilità di modificare l’accordo o il piano rinnovando, però, in questo caso, le prescritte attestazioni.

Il concordato preventivo

Si tratta dell’istituto più convolto nelle riforme degli ultimi anni della Legge fallimentare, che con l’emanazione dei Decreti delegati dovrà andare incontro a un’intensa riorganizzazione. Fra le molte novità che arriveranno, vediamo quelle più significative.

Innanzitutto, il legislatore prevede la preferenza per il concordato con continuità aziendale, intendendo ricompresi nel perimetro dell’istituto sia l’affitto che la cessione d’azienda. Il concordato liquidatorio, invece, potrà essere ammesso esclusivamente in caso di apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori. Deve essere comunque assicurato il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare complessivo dei crediti chirografari.

Quella sul concordato liquidatorio era una previsione elaborata dalla Commissione Rordorf, che però era stata eliminata dal disegno di Legge delega, per poi comparire di nuovo nella versione definitiva approvata dal Parlamento. Ciò che invece è stato espunto dal progetto elaborato dalla Commissione è la possibilità di proporre la domanda di concordato da parte di creditori e terzi interessati, possibilità che secondo alcuni non avrebbe solo agevolato la definizione di situazione di crisi, ma avrebbe anche potuto prestarsi ad usi distorti e strumentali.

Altro punto della Legge delega è l’incarico al Governo a definire le modalità di accertamento della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano, nonché i relativi poteri di controllo giurisdizionale che saranno conservati in capo al Tribunale.

Con soluzione identica a quella elaborata dalla Commissione Rordorf (e diversa dal disegno di Legge, che prevedeva un’obbligatorietà tout court), la Legge delega stabilisce poi che si dovranno indicare i casi in cui è obbligatoria la suddivisione dei creditori in classi. Si avrà così una disciplina del concordato preventivo intermedia tra quella che ad oggi rappresenta una mera facoltà per il debitore ed un obbligo generalizzato, che avrebbe forse irrigidito troppo la procedura.

Importante sarà l’integrazione che il Governo dovrà operare con riferimento alla disciplina dei rapporti pendenti, con la possibilità di scioglimento da parte del commissario che dovrà essere ritenuta ammissibile solo dopo la presentazione del piano di concordato. Sarà inoltre soppressa l’adunanza dei creditori, con la previsione di modalità di voto telematiche. Sempre a proposito del voto, questo potrà essere anche “per teste”, nel caso in cui un solo creditore sia titolare di crediti di ammontare pari o superiore alla maggioranza di quelli ammessi al voto.

Inoltre, dovranno essere riordinate le fasi dell’esecuzione, dell’annullamento e della risoluzione del concordato, attualmente disciplinate da tre sole disposizioni della Legge fallimentare, in particolare con riferimento agli effetti purgativi dell’esecuzione del concordato e alla previsione della possibilità di deroga alla solidarietà passiva di cui all’art. 2560 Cod. civ. (relativo alla cessione di azienda).

Importante infine, la previsione per il concordato di società commerciali, del coordinamento con la disciplina delle azioni di responsabilità previste dal diritto societario, non esistendo ad oggi una specifica normativa per le procedure di concordato preventivo.

La procedura di liquidazione giudiziale

Ritenuta residuale, la procedura che prenderà il posto del fallimento sarà caratterizzata dal ruolo centrale del curatore, figura che vedrà ampliarsi i propri poteri ispettivi e di accertamento, unitamente alla legittimazione a promuovere un’ampia gamma di azioni di responsabilità, e per questo sarà anche destinatario di una rigida disciplina sulle incompatibilità. A proposito delle azioni esperibili dal curatore, si segnala che nella riforma il dies a quo per il computo del periodo sospetto per le azioni d’inefficacia e revocatoria è anticipato al deposito della domanda cui sia seguita l’apertura della liquidazione giudiziale.

Circa gli altri organi della procedura, si segnala che il comitato dei creditori sarà costituito solo nelle procedure più complesse, venendo per il resto sostituito da modalità di consultazione telematiche.

Di notevole rilevanza è la previsione del legislatore di escludere, nell’ambito della liquidazione, l’operatività di esecuzioni speciali e di privilegi processuali, anche fondiari. I trattamenti di favore che il legislatore ha fino ad oggi riservato a determinate categorie di creditori (si pensi alle banche) saranno dunque eliminati. La Legge delega prevede che, in ogni caso, il privilegio fondiario continuerà ad operare sino alla scadenza del secondo anno successivo a quello di entrata in vigore dell’ultimo dei Decreti legislativi di attuazione.

Il Governo dovrà poi prevedere strumenti per rendere più semplici e veloci le fasi di accertamento del passivo e di liquidazione e ripartizione dell’attivo. A tal proposito, si possono segnalare l’introduzione di forme semplificate di presentazione della domanda di ammissione al passivo, l’introduzione di preclusioni attenuate già nella fase monocratica e l’accertamento in sede concorsuale di ogni credito opposto in compensazione. Per quanto riguarda la ripartizione dell’attivo, si potrà ricorrere anche a procedure di trasparenza mediante un mercato nazionale telematico dei beni da vendere, cui si aggiungono la possibilità di acquisto di tali beni da parte di creditori abilitati e l’istituzione di appositi fondi per gestire i beni invenduti.

Di portata molto ampia è poi la delega a contenere e rendere più chiare le ipotesi di prededuzione, nonché alla revisione del sistema dei privilegi, principalmente con l’obiettivo di ridurre le ipotesi di privilegio generale e speciale, rimuovendo quelle più anacronistiche. In questo ambito, la Legge delega non scende nel dettaglio, per cui sarà compito del Governo trovare la strada più opportuna, sempre nel rispetto dello scopo finale, che è quello di garantire un trattamento realmente paritario ai creditori.

Previste dalla riforma anche la creazione d’incentivi per il concordato liquidatorio giudiziale (proposto da creditori, terzi e dallo stesso debitore) e l’assoggettamento alla procedura di liquidazione giudiziale come causa di scioglimento di diritto per le società di capitali.

Infine, saranno ampliate le ipotesi di esdebitazione, che potrà essere richiesta subito dopo la chiusura della procedura o passati tre anni dal suo inizio, con la possibilità di sua automatica applicazione in caso d’insolvenze minori.

La delega prevede anche modifiche alla disciplina della composizione della crisi da sovraindebitamento, introdotta nel 2012 e scarsamente utilizzata. In questo ambito, fra le altre cose, è prevista l’estensione della disciplina ai soci illimitatamente responsabili di società commerciali e la possibilità di consentire al debitore meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno futura, di accedere all’esdebitazione solo per una volta, fatto salvo l’obbligo di pagamento del debito entro quattro anni, laddove sopravvengano utilità.

Come si può vedere da questo lungo elenco, molte sono le novità che delineano i contorni della riforma organica della crisi d’impresa. E se alcuni aspetti sono già così chiari nella delega, tanto che hanno già dato luogo a commenti e dibattiti, altri (come ad esempio la riforma dei privilegi) potranno essere studiati solo in seguito all’intervento del Governo, chiamato ad operare in modo specifico con una certa discrezionalità.

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La rivoluzione della Cassazione sull’assegno divorzile

Grande scalpore ha suscitato la scorsa primavera la sentenza n. 11504 del 10.05.2017 della Sezione I della Corte di Cassazione, che ha rivoluzionato l’orientamento in materia di riconoscimento dell’assegno divorzile a vantaggio del coniuge più debole. A distanza di qualche mese cerchiamo dunque di capire quale sia il principio affermato da questa pronuncia, che applicazione ne hanno fatto nel frattempo i Tribunali e quali sono gli scenari che si prospettano.

Mantenimento, alimenti, assegno divorzile: un po’ di chiarezza

Una prima e necessaria premessa è quella terminologica: l’istituto su cui è intervenuta la Corte di Cassazione nel maggio scorso è l’assegno divorzile, previsto dall’art. 5, sesto comma, della L. n. 898/1970 (c.d. Legge sul divorzio). Questa disposizione recita: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. È bene tenere fin da subito in considerazione la lettera di questa norma perché, come avremo modo di vedere, è proprio a partire da essa che la Corte di Cassazione ricostruisce l’istituto e – in una certa misura – ne rivoluziona l’applicazione.

Diverso dall’assegno divorzile è l’assegno di mantenimento. Questo è previsto in caso di separazione personale dei coniugi dall’art. 156 Cod. civ., che stabilisce: “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. E subito ai due commi successivi si preoccupa di affermare che “L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato” e che “Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti”.

Istituto diverso è poi l’obbligazione degli alimenti, anche se nel linguaggio comune spesso si utilizza questo termine per fare riferimento ai contributi che uno dei coniugi (o meglio, ex coniugi) versa nei confronti dell’altro. Previsti dall’art. 433 e ss. Cod. civ., gli alimenti non devono essere prestati solo dall’ex coniuge. Si tratta, in realtà, di un’obbligazione di natura assistenziale dovuta per legge alla persona che si trova in stato di bisogno economico e basata su presupposti diversi da quelli degli altri due istituti richiamati. Infatti, l’art. 438 Cod. civ. stabilisce che “Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento.

Essi devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale”.

La Cassazione e l’assegno divorzile: le due valutazioni da compiere

La sentenza n. 11504/2017 è dunque intervenuta sull’assegno divorzile, partendo dal presupposto per cui una volta sciolto il vincolo matrimoniale con il divorzio i coniugi debbano essere considerati persone singole, sia per quanto riguarda i loro rapporti economico-patrimoniali, sia con riferimento al reciproco dovere di assistenza morale e materiale (rimangono validi, invece, gli obblighi derivanti dalla potestà genitoriale).

A partire dal dettato dell’art. 5 della Legge sul divorzio, sopra richiamato, la Cassazione ritiene che in ordine all’attribuzione del diritto all’assegno divorzile si debbano effettuare due valutazioni, la seconda consequenziale alla prima: la spettanza o meno dell’assegno (l’an) e la sua quantificazione (il quantum).

Proprio in relazione alla quantificazione, la Cassazione afferma che essa deve essere fatta non in ragione del rapporto matrimoniale, ormai estinto anche nella sua dimensione economica, ma in considerazione di esso (“tenuto conto” dice l’art. 5 della Legge sul divorzio).

Per quanto riguarda la spettanza dell’assegno, la Corte ritiene opportuno sottolineare come esso sia un istituto di solidarietà economica, che non deve procurare un ingiusto guadagno al coniuge beneficiario. Ecco perché, nel rispetto del dettato normativo, occorre prestare particolare attenzione all’eventuale presenza di mezzi adeguati dell’ex coniuge richiedente o alle effettive possibilità di procurarseli; in altre parole alla sua eventuale indipendenza o autosufficienza economica. Fattori che, se esistenti, sono in grado di escludere in radice l’an del diritto all’assegno. Naturalmente, l’onere di provare che sussistono i requisiti per la concessione dell’assegno divorzile è a carico dell’ex coniuge che lo richiede.

Fin qui nessun problema, nel senso che la Corte si è limitata a riprendere il dettato normativo, ponendo particolare attenzione su quali siano le valutazioni che il giudice deve compiere per riconoscere o meno questa prestazione al richiedente. Il punto centrale, però, è che la terminologia del legislatore richiede di essere interpretata, e su questo punto la Cassazione del 2017 ha detto la sua in modo molto diverso rispetto a prima.

L’adeguatezza o meno dei mezzi dagli anni ’90 ad oggi

Infatti, stabilire quali siano i parametri per ritenere che i mezzi di chi richiede l’assegno siano adeguati o meno, e se questi abbia o no la possibilità di procurarseli, non è un’operazione immediata, data la necessità di capire quale sia il parametro di adeguatezza.

Fino alla pronuncia che qui ci interessa, la Cassazione aveva adottato un criterio affermatosi con forza in seguito alle sentenze a Sezioni Unite nn. 11490 e 11492/1990, e cioè quello per cui il termine di paragone per stabilire se i mezzi dell’ex coniuge fossero adeguati o meno era il “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”.

È proprio questo criterio che è stato oggetto di ribaltamento lo scorso mese di maggio, non ritenendo la Corte che esso fosse ancora attuale, per una serie di ragioni.

Le ragioni del cambio di prospettiva

In primo luogo – afferma la Cassazione – se il matrimonio si scioglie con la sentenza di divorzio, il voler parametrare il diritto o meno all’assegno divorzile al tenore di vita tenuto durante il rapporto finisce proprio per ripristinarlo, anche se limitatamente all’ambito economico ed in prospettiva futura. Il diritto all’assegno, infatti, deve essere riconosciuto tenendo in considerazione l’ex coniuge come persona singola; le condizioni economiche del matrimonio (ormai preesistente) possono essere, infatti, tenute in considerazione solo al momento della quantificazione dell’importo dell’assegno, non dunque per stabilire se il richiedente ne ha diritto o no.

La Cassazione, infatti, ritiene che l’applicazione del criterio interpretativo del tenore di vita in costanza di matrimonio abbia portato ad una evidente commistione delle due fasi valutative (l’an e il quantum), che invece devono essere distinte ed autonomamente disciplinate.

In secondo luogo, l’orientamento che si era formato dal 1990 in poi aveva avuto l’obiettivo di contemperare la nuova concezione patrimonialistica del matrimonio con l’esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dall’esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, sorti in epoche molto anteriori alla riforma del diritto di famiglia. L’esigenza di un orientamento che non rompesse con la precedente tradizione, però, si era molto attenuata nel corso degli anni, tanto che la Corte ritiene che nel 2017 si possa parlare di matrimonio come atto di libertà e di auto-responsabilità, oltre a luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita. In altri termini, un legame che – in quanto libero e fondato su affetti – è anche possibile sciogliere quando le condizioni per la comunione di vita non ci sono più.

Queste considerazioni portano ad una conseguenza fondamentale: “L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile […] non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente – assistenziale dell’assegno divorzile.” Secondo il ragionamento della Corte, le uniche condizioni economiche che si devono tenere in considerazione quando si deve stabilire se riconoscere o meno il diritto all’assegno sono quelle del soggetto che lo richiede, senza effettuare paragoni tra le diverse situazioni degli ex coniugi.

Il nuovo parametro di riferimento e gli indici individuati dalla Corte

Se così stanno le cose, si comprende bene perché la Cassazione sostituisca il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio con il criterio dell’indipendenza economica (o meno) dell’ex coniuge richiedente: “un parametro di riferimento siffatto – cui rapportare il giudizio sull’ “adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla “possibilità-impossibilità per ragioni oggettive” dello stesso di procurarseli – vada individuato nel raggiungimento dell’“indipendenza economica” del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.

Si tratta, del resto, di un corollario del principio di auto-responsabilità, che governa il matrimonio e che “vale certamente anche per l’istituto del divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi – irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no – delle relative conseguenze anche economiche”.

In altre parole, la Cassazione ha affermato che solo seguendo il criterio dell’indipendenza economica è possibile compiere una corretta valutazione in ordine alla spettanza o meno dell’assegno divorzile. Un eventuale giudizio comparativo tra le condizioni del singolo e quelle che aveva in costanza di matrimonio sarà giustificato soltanto nel momento in cui si debba quantificare l’ammontare dell’assegno di cui si è già riconosciuto il diritto all’erogazione.

Per stabilire quando uno degli ex coniugi possa essere ritenuto economicamente indipendente, la Corte di Cassazione nella sent. n. 11504/2017 individua una serie di indici di valutazione, tra cui si può menzionare il possesso di redditi o di beni immobili, la capacità lavorativa in relazione allo stato di salute e all’età, la stabile disponibilità di una casa di abitazione. Spetterà a chi chiede l’assegno dare prova di non avere mezzi adeguati e di non poterseli procurare per ragioni oggettive, seguendo gli stessi indici ricostruiti dalla Corte, che a loro volta sono costitutivi del parametro dell’indipendenza economica. La prova dovrà essere fornita in maniera specifica, anche mediante presunzioni (soprattutto per quanto riguarda la capacità lavorativa) “fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative”.

Si tratta di un notevole cambio di prospettiva, che però è del tutto in linea con la normativa vigente, se è vero che l’art. 5 della Legge sul divorzio non parla mai, neppure indirettamente, del tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio come criterio applicativo dell’assegno divorzile.

Prime reazioni in giurisprudenza e prospettive future

La novità e la forza del ribaltamento di prospettiva operato dalla Cassazione sono tanto più evidenti se solo si pensa al fatto che il principio di diritto dovrà essere applicato anche a tutti i processi già pendenti al momento della pronuncia della Corte.

La giurisprudenza di legittimità si è immediatamente assestata sul nuovo principio affermato dalla Sezione I, facendone larga applicazione nelle pronunce immediatamente successive a quella fin qui esaminata. Da ultime si possono ricordare le due ordinanze della Sezione VI-1, nn. 20525 e 23602 del 2017. Entrambe affermano la necessità di un giudizio in due fasi (an e quantum dell’assegno), con onere della prova della non indipendenza economica a carico del richiedente. In particolare, nella seconda delle pronunce appena citate si può leggere “L’attribuzione dell’assegno divorzile non può essere giustificata dal divario tra le condizioni reddituali delle parti al momento del divorzio, né dal peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, a tal fine rilevando unicamente la mancanza della indipendenza o autosufficienza economica del richiedente. Nella fase del giudizio concernente l’an debeatur, invero, il richiedente, per il principio di autoresponsabilità economica, è tenuto, quale persona singola, a dimostrare la propria personale condizione di non indipendenza o autosufficienza economica. Alle condizioni reddituali dell’altro coniuge (unitamente agli altri elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970), pertanto, può aversi riguardo unicamente nella eventuale fase della quantificazione dell’assegno, alla quale è possibile accedere solo nel caso in cui la fase dell’an debeatur si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente l’attribuzione dell’emolumento.

Dopo nemmeno un mese dalla pronuncia della Cassazione, il Tribunale di Milano, Sezione IX Civile, con l’ordinanza del 22.05.2017, ha fatto applicazione dei nuovi principi, addirittura integrandoli con un ulteriore parametro. Il giudice milanese ha infatti ritenuto che “Un parametro (non esclusivo) di riferimento può essere rappresentato  dall’ammontare degli introiti che, secondo le leggi dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato (soglia che, ad oggi, è di euro 11.528,41 annui ossia circa euro 1000 mensili). Ulteriore parametro, per adattare “in concreto” il concetto di indipendenza, può anche  essere il reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita.”. Sulla scorta di queste valutazioni, che per riprendere la scansione in due fasi fatta propria della Cassazione, sono svolte al momento di verificare la spettanza (l’an) dell’assegno, il Tribunale ha negato il diritto all’assegno divorzile. In altre parole: un reddito di € 1.000,00 mensili è sufficiente a far ritenere una persona economicamente autosufficiente, dunque non avente diritto a mantenimento. In una successiva pronuncia (5.06.2017) sempre la Sezione IX del Tribunale di Milano, facendo applicazione del principio d’indipendenza economica, ha respinto la richiesta di assegno di divorzio di un ex coniuge possesso di redditi da lavoro dipendente, nonché dell’uso esclusivo della propria abitazione, anche se non di diretta proprietà.

Anche il Tribunale di Venezia, con decreto del 25.05.2017 ha subito abbandonato il parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio per determinare il diritto o meno del coniuge all’assegno divorzile “essendo piuttosto rilevanti atri indici, quali il “possesso” di redditi ed il patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e la “stabile disponibilità” di un’abitazione.

Un simile cambiamento di prospettiva non sarà indolore per molti beneficiari di assegno divorzile e, indirettamente, per gli Uffici giudiziari italiani, già particolarmente gravati di contenzioso. Non manca, infatti, chi, tra i primi commentatori della sentenza, ha evidenziato il rischio di un eccessivo ricorso a domande di revisione dell’assegno (possibilità prevista dall’art. 9 della Legge sul divorzio e recentemente intrapresa con successo dall’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi), incrementando così il contenzioso. Per questo c’è anche chi spera che il legislatore intervenga in modo da chiarire i confini applicativi dell’istituto dell’assegno divorzile, i cui beneficiari rischiano modifiche o addirittura revoche.

D’altro canto, non è mancato chi ha notato che la prassi dei tribunali italiani fosse già da tempo allineata sui principi da ultimo affermati dalla Cassazione, se è vero che, rilevazioni statistiche alla mano, risulta che solo nel 20% circa delle separazioni viene concesso un assegno al coniuge debole. Numeri che non aumentano in sede di divorzio.

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La vittoria dei residenti contro la movida

I centri storici delle principali città italiane sono tutti interessati dal fenomeno della c.d. movida. Intere zone sono ormai divenute punti di aggregazione per centinaia di avventori – più o meno giovani – che non solo si recano in ristoranti e pub ma vi stazionano fuori, affollando strade e vicoli e creando una serie di difficoltà a chi risiede nei dintorni. Una di queste difficoltà – forse la maggiore – è data dal rumore generato da un grande numero di persone; rumore che nei vicoli dei nostri centri storici si propaga e si amplifica, rendendo impossibile il riposo ai residenti.

Molte amministrazioni locali hanno cercato di far dialogare le associazioni di categoria con i residenti, in modo da stabilire regole di convivenza condivise, che possano tenere in considerazione gli interessi delle attività economiche di ristorazione unitamente al diritto al riposo delle persone. In molti casi, però, questi tentativi non hanno funzionato e si è giunti ad episodi di esasperazione, che hanno travalicato i limiti della semplice protesta. Per restare alla nostra realtà locale, fecero scalpore, un anno fa, le secchiate d’acqua lanciate da un residente sui tavoli affollati del locale sottostante la sua abitazione.

Se per il rumore che proviene dall’interno dei locali, o da musica installata dai gestori, vi possono essere idonei strumenti civili e penali, nei confronti delle persone che stazionano in strada fino a tarda ora, spesso dopo l’orario di chiusura degli esercizi (e che spesso nei locali nemmeno ci entrano), la questione è più complicata.

Il caso di Brescia

Due coniugi bresciani, però, non si sono dati per vinti e hanno trascinato in Tribunale il Comune, colpevole, a detta loro, di non fare nulla per impedire il caos nelle strade della movida. Caos che genera rumore e che aveva causato ai due quotidiani disagi e notti insonni (sfociati in stati d’ansia) tanto da arrivare al punto di dover cambiare gli infissi (e tentare anche di vendere casa). A dirla tutta, prima della causa civile i due coniugi avevano inviato numerose diffide al Comune di Brescia, affinché ponesse rimedio alla situazione del rumore generato dagli avventori dei locali della movida, ed avevano anche promosso ricorso al T.a.r., per far sì che il Comune adottasse un provvedimento di rimozione dell’inquinamento acustico. Provvedimento che poi era stato adottato, e che consisteva nella riduzione dell’orario di apertura dei locali (00:30 durante la settimana, 1:00 nel weekend), che tuttavia non aveva risolto il problema.

Da ciò la richiesta al Tribunale di far cessare le emissioni sonore e di ottenere il risarcimento del danno. Il fondamento della richiesta è l’art. 844 Cod. civ., di cui ci siamo già occupati a lungo nella scorsa newsletter, quando abbiamo parlato della puzza di fritto. In quel caso le emissioni erano odorose, qui sono sonore, ma il principio del superamento della normale tollerabilità rimane lo stesso, così come il rimedio dell’inibitoria. A ciò si aggiunga la richiesta di risarcimento del danno, che segue le regole della responsabilità civile ex art. 2043 Cod. civ., in questo caso per aver tenuto condotte di tipo omissivo.

Con la sentenza del 6.09.2017 la Sezione I Civile del Tribunale di Brescia dà ragione in pieno alla coppia di residenti del centro storico. E lo fa senza nemmeno disporre una consulenza tecnica in corso di causa, ma basandosi su rilievi fonometrici – eseguiti da tecnici comunali prima dell’instaurazione del giudizio – e su testimonianze di residenti e funzionari comunali.

Curiosa la preliminare definizione di movida, data dal Tribunale riprendendo la terminologia usata dallo stesso Comune di Brescia: “il fenomeno caratterizzato dal fatto che un elevato numero di persone (nell’ordine del migliaio in alcune occasioni) staziona l’esterno degli esercizi pubblici di cui sopra, occupando la pubblica via, consumando bevande per lo più alcoliche e trattenendosi in loco fino ad ore molto tarde (anche oltre le 2.00 di notte)”.

L’inibitoria delle immissioni di rumore ed il risarcimento del danno

Testimonianze di residenti, unitamente a numerose fotografie prodotte in giudizio e a rapporti che il servizio di volontari costituito dagli esercenti (“City Angels”) inviava al Comune, hanno portato il Giudice a ritenere che il rumore derivasse proprio dalla movida, costituita frequentemente anche da persone in stato di alterazione alcolica. A ciò si aggiungevano i rilievi fonometrici svolti dal tecnico comunale e acquisiti al processo, che avevano rilevato un significativo aumento della rumorosità (nell’ordine di 20 db) negli orari di apertura dei locali. Anche il T.a.r., cui i residenti si erano rivolti in precedenza, aveva accertato l’esistenza d’inquinamento acustico notturno, particolarmente dannoso per la salute delle persone.

Da tutto ciò è scaturito l’ordine al Comune di far cessare le condotte rumorose, che eccedono la normale tollerabilità, mediante l’adozione dei provvedimenti più idonei allo scopo.

Per quanto riguarda, invece, la richiesta di risarcimento del danno fatta dai coniugi al Comune, il Tribunale ritiene che l’Ente locale sia responsabile per non avere fatto niente al fine di prevenire gli schiamazzi provenienti dall’assembramento di persone lungo le strade della movida; schiamazzi che generano immissioni di rumore intollerabili per i residenti e dannose per la loro salute. In particolare il Tribunale ritiene che alcune misure adottate e documentate dal Comune, come l’aumento di pattuglie di Polizia Municipale, l’anticipazione degli orari di chiusura dei locali e della pulizia strade, siano del tutto insufficienti. Particolarmente rilevante in questo frangente è stata la testimonianza di un agente di Polizia Municipale, il quale ha affermato che il loro servizio era di presenza e che non avevano mai fatto allontanare le persone perché, a parte il rumore, non vi erano ragioni di sicurezza per farlo, oltre al fatto che gli uomini sarebbero stati insufficienti per una simile operazione. La condotta del Comune è stata ritenuta significativamente negligente anche perché il fenomeno della movida avviene in giorni della settimana definiti e ad orari sempre uguali, cosicché è tutto fuorché imprevedibile per l’amministrazione.

Indubbio poi il nesso di causa tra condotta negligente del Comune e danno, posto che è dimostrato dai rilievi fonometrici acquisiti che il rumore è causato dalla folla di persone che si raduna fuori dai locali.

Per quantificare il danno, il Tribunale fa applicazione del principio stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 2611/2017, già esaminata nella precedente news sulla puzza di fritto. Viene così liquidato in via equitativa un danno non patrimoniale derivante dalla lesione del normale svolgimento della vita quotidiana, che il Giudice bresciano liquida in € 50,00 a sera (per un totale di € 20.000,00 a coniuge). A ciò si aggiunge il riconosciuto danno patrimoniale per l’installazione dei nuovi infissi, ma non quello da deprezzamento dell’immobile.

Eventuali problemi applicativi

Questa pronuncia ha avuto immediata risonanza sui media nazionali, oltrepassando i confini della provincia bresciana, fornendo speranze a residenti esasperati di tutta Italia, che pare possano trovare nell’amministrazione comunale un bersaglio qualificato per le loro richieste (anche) risarcitorie.

Tuttavia la strada giudiziaria non è mai semplice, perché nessun caso è uguale all’altro. Basti pensare alla diversità di materiale probatorio che può presentarsi in casi analoghi. I coniugi bresciani avevano dalla loro numerosi testimoni, fotografie, rapporti e rilievi fonometrici effettuati da tecnici comunali; addirittura è andata a loro favore la testimonianza di un agente di Polizia Municipale. L’insieme di questi elementi ha permesso al Giudice di decidere senza disporre un’indagine fonometrica in corso di causa. Non sempre, però, queste situazioni si verificano. Basti pensare che alcuni Comuni italiani hanno tempi biblici per eseguire indagini tecniche su richiesta dei propri residenti, e che in mancanza di ciò l’interessato dovrà provvedere con un professionista di fiducia che non solo sarà più costoso, ma rischia anche di essere screditato in giudizio perché “di parte”.

A quelle che, in fondo, sono le difficoltà di qualunque giudizio si aggiunge una perplessità dettata dal contenuto dell’inibitoria cui il Tribunale di Brescia ha condannato il Comune. Se, infatti, possono sorgere pochi dubbi in merito alla condanna del Comune a risarcire il danno ai residenti, stabilire quali possano essere i provvedimenti più idonei a far cessare il rumore di persone che si ritrovano per la pubblica via non è cosa da poco.

Il giudice di Brescia, sia nella motivazione che nel dispositivo della sentenza, osserva che “la sola misura che si presenta efficace ai fini della risoluzione del problema è la predisposizione di un servizio di vigilanza, organizzato per tutte le sere dal giovedì alla domenica nei mesi da maggio a ottobre, con l’impiego di agenti comunali che si adoperino, entro la mezz’ora successiva alla scadenza dell’orario di chiusura degli esercizi commerciali autorizzati, a far disperdere ed allontanare dalla strada comunale Via Fratelli Bandiera le persone che stazionano lungo la stessa e che non se ne allontanano spontaneamente”.

Se in astratto questo pare l’unico rimedio immaginabile contro il rumore antropico, in concreto possiamo sostenere che il Comune abbia l’autorità di disporre sgomberi coatti di suolo pubblico? È sufficiente il danno causato ai residenti o sono necessarie anche ragioni di ordine pubblico? E, in ogni caso, l’ente locale ha la competenza per procedere o – come sostengono a Brescia – si ricade in materia attribuita alla Prefettura? Ciò che appare evidente, infatti, è la necessità di un non facile bilanciamento tra diritti costituzionali, tra cui quello alla salute dei residenti e quello di riunione degli avventori dei locali. Ad ogni modo, la sentenza è stata appellata dal Comune (che ritiene la situazione attuale migliorata e non più come descritta dal Tribunale), per cui avremo modo di seguire l’evoluzione della vicenda, bresciana e non solo. Non è detto, infatti, che altri residenti non si facciano avanti in altre parti d’Italia, sottoponendo il problema ai locali Tribunali.

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Il tasso d’interesse in caso di domanda giudiziale

Una recente pronuncia del Tribunale di Firenze (Sezione III Civile, in data 31.01.2017) ha puntato i riflettori su di una disposizione del Codice civile in materia d’interessi riformata nel 2014, nella cui applicazione non si erano riscontrate, finora, prese di posizione esplicite da parte della giurisprudenza. Ci si riferisce all’art. 1284 Cod. civ., in particolare ai commi quarto e quinto: “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale.”.

Si tratta di disposizioni inserite dal D.L. n. 132/2014 (convertito con modificazioni nella L. n. 162/2014) in un articolo del Codice che si preoccupa di disciplinare il tasso degli interessi legali (ed è infatti rubricato “Saggio degli interessi”), le quali si rivelano decisive in presenza di controversie che hanno ad oggetto il pagamento di somme di denaro. Cerchiamo di ricostruire la disciplina e di capire l’importanza della pronuncia del Tribunale di Firenze.

I diversi tipi di interessi

Quella agli interessi è un’obbligazione pecuniaria accessoria ad un’obbligazione principale a sua volta pecuniaria (in diritto per obbligazione pecuniaria s’intende quella in cui il debitore deve dare al creditore una somma di denaro). Gli interessi possono essere previsti dalla legge (dunque legali) o dalle parti (convenzionali) e si determinano sulla base di un tasso (o saggio), che può essere a sua volta previsto dalla legge o dall’accordo delle parti (pur nel rispetto delle soglie oltre le quali si parla di usura), applicato ad un capitale in relazione ad un periodo di tempo.

Tra le tipologie si annoverano gli interessi corrispettivi (dovuti per il godimento che il debitore ha del denaro del creditore, come nel mutuo), compensativi (dovuti per il mancato ottenimento da parte del creditore di una prestazione dovuta) e moratori (dovuti per il ritardo che il debitore fa del pagamento dovuto al debitore).

La riforma del 2014, andando ad incidere sull’art. 1284 Cod. civ., si occupa del tasso legale, dunque applicabile a qualsiasi tipologia di interesse nel caso in cui le parti non abbiano disposto diversamente.

Gli interessi di mora nelle transazioni commerciali e la riforma del 2014

Chiunque eserciti un’attività d’impresa è consapevole del fatto che ormai da quindici anni (dall’introduzione del D.Lgs. n. 231/2002) sulle somme di denaro sono dovuti gli interessi di mora (dunque per il ritardo nel pagamento) indipendentemente da formali richieste (c.d. messa in mora) al debitore. La novità del provvedimento appena citato, infatti, consiste nel prevedere che per le transazioni commerciali (tra imprese o tra imprese e pubblica amministrazione) gli interessi di mora decorrono automaticamente dal giorno successivo a quello previsto per la scadenza del pagamento (cfr. art. 4, che prevede anche criteri di decorrenza nel caso in cui un termine per il pagamento non fosse stato previsto dalle parti). L’art. 5 prevede poi che il tasso degli interessi di mora sia aggiornato con decreto ministeriale ogni sei mesi, ma sia comunque di sette punti percentuali superiore al “saggio d’interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione”.

Non occorre essere abili matematici per comprendere che il tasso legale degli interessi di mora nelle transazioni commerciali è ben più elevato del tasso d’interesse legale applicabile in via generale alle obbligazioni pecuniarie ai sensi dell’art. 1284 Cod. civ. Una maggiorazione di sette punti percentuali rispetto ad un tasso base produce un saggio elevato, anche considerando che il tasso d’interesse legale previsto per il 2017 dall’art. 1284, primo comma, Cod. civ., così come integrato dal decreto ministeriale annuale, è (solo) dello 0,1 %.

Da queste brevi note è già possibile comprendere il deciso cambiamento portato dal D.L. n. 132/2014 nell’introdurre gli ultimi due commi all’art. 1284 Cod. civ. Una disciplina particolarmente favorevole all’imprenditore, che prevede un tasso d’interesse elevato ed una decorrenza automatica degli interessi di mora – per impedire che continui ritardi nei pagamenti vadano a suo discapito – è stata estesa a qualsiasi rapporto abbia ad oggetto una somma di denaro. Unico requisito per la sua applicazione è che sia stata proposta domanda giudiziale (o di arbitrato). La ragione alla base di questa riforma sembra essere quella di volere che la durata dei processi non vada a discapito del creditore, nonché di rendere sconveniente ai debitori resistenze infondate in giudizio, poiché il tempo che pensano di guadagnare si ripresenterà alla fine del processo, sotto forma di una somma dovuta per interessi di molto superiore a quella che si sarebbe avuta con la semplice applicazione del tasso legale.

La sentenza del Tribunale di Firenze

A tal proposito, la sentenza del Tribunale di Firenze citata in apertura non afferma niente di rivoluzionario in materia; tuttavia, essa è interessante perché affronta per prima l’applicazione della normativa del 2014, non rinvenendosi precedenti in giurisprudenza. In particolare, il Giudice ha stabilito che sia sufficiente, al momento della domanda, richiedere genericamente gli interessi legali su di una somma di denaro per poter consentire l’applicazione d’ufficio, in sentenza, del tasso di interesse maggiorato di cui al quarto comma dell’art. 1284 Cod. civ. In altre parole, anche se chi agisce non ha espressamente chiesto gli interessi ai sensi dell’art. 1284 Cod. civ., ma solo gli interessi al tasso legale, potrà vedersi riconosciuti quelli della riforma del 2014, purché la causa sia iniziata dopo l’entrata in vigore del D.L. n. 132/2014 (dunque dopo l’11.12.2014).

Il tasso previsto per gli interessi moratori dalla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali è, del resto, un tasso d’interesse legale a tutti gli effetti. Il giudice, quindi, che lo applichi d’ufficio su richiesta generica del creditore non incorre nel vizio di ultra-petizione, non facendo altro che qualificare giuridicamente (e correttamente) la domanda.

Dal 2014, dunque, chiunque debba delle somme di denaro troverà poco conveniente resistere in maniera infondata in giudizio: il conto che gli si presenterà alla fine sarà salato.

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Metti un diamante in banca

Periodicamente, in materia d’investimenti, esplodono grandi scandali connessi a strumenti finanziari venduti ai risparmiatori come appetibili, convenienti e sicuri, che si rivelano invece spazzatura. Negli ultimi anni sono stati numerosi i casi di italiani che hanno visto sfumare i propri risparmi, perché erroneamente consigliati dalle proprie banche e dai propri consulenti al momento di decidere dove investire il loro denaro. Dai bond argentini ai casi Cirio e Parmalat, dal crack Lehman Brothers alle obbligazioni subordinate di Banca Etruria, fino alle azioni della Banca Popolare di Vicenza, l’elenco è lungo e vario. L’elemento comune di tutte le vicende è, però, l’esistenza di uno strumento finanziario particolarmente rischioso, o con prezzo stabilito arbitrariamente, che si è improvvisamente svuotato di valore, mandando in fumo risparmi d’intere famiglie ignare di ciò in cui avevano realmente investito i propri risparmi.

Al di là delle diverse vicende economiche che si trovano alla base del deprezzamento dei singoli strumenti, le perdite subìte dai risparmiatori sono state (quasi) sempre direttamente imputabili ad una condotta scorretta della banca nella sua veste di intermediario finanziario, che non aveva correttamente informato l’acquirente della reale natura dei titoli e dei rischi ad essa connessi.

Laddove si rinvenga la violazione di obblighi informativi – unitamente ad altre condotte previste dal D.Lgs. n. 58/1998 (Testo unico in materia di intermediazione finanziaria) – è possibile agire in giudizio per chiedere la risoluzione per inadempimento, da parte dell’intermediario finanziario, del contratto quadro di investimento e dei singoli ordini, così da poter ottenere il risarcimento delle somme perdute. Somme che, se correttamente informato, il risparmiatore avrebbe destinato ad altre tipologie d’investimento.

Ciò detto in maniera estremamente semplificata – nella consapevolezza che ogni caso presenta singolarità fattuali e giuridiche – è anche grazie alla tutela offerta dai Tribunali che molti risparmiatori sono riusciti a rivedere in tutto o in parte i propri risparmi.

Il caso dei diamanti da investimento

Nelle ultime settimane in materia d’investimenti si è aperto un nuovo fronte per i risparmiatori che hanno visto sfumare i loro risparmi, iniziato per la verità con una puntata della trasmissione Report dell’ottobre del 2016. Si tratta della questione dei diamanti da investimento.

Nel mese di settembre, infatti, l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (c.d. Antitrust) ha comminato multe per complessivi 15,35 milioni di € a due società che commerciano diamanti (la Intermarket Diamond Business S.p.a. e la Diamond Private Investment S.p.a.) e a quattro banche che fungevano da intermediarie (Unicredit, Banco BPM, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi di Siena), per aver attuato pratiche commerciali scorrette e ingannevoli per i consumatori.

Come avviene anche per l’oro e per le materie prime in generale, i diamanti sono visti come bene rifugio, il cui prezzo – corrispondendo ad un valore intrinseco reale – tende a rimanere pressoché inalterato nel tempo, anche in periodi di crisi economica e di instabilità dei prezzi. Si tratta, quindi, di un investimento sicuro, che non genera grandi rendimenti ma serve a proteggere il capitale investito.

La decisione del Garante

Ebbene, con due decisioni assunte lo scorso 20 settembre, l’Antitrust ha accertato sistematiche violazioni relative alla compravendita di diamanti a fine di investimento; violazioni commesse dalle due società I.D.B. S.p.a. e D.P.I. S.p.a. e dalle banche con le quali esse operavano per collocare le pietre ai risparmiatori. Si tratta, in particolare, dell’accertamento di modalità ingannevoli ed omissive con le quali i diamanti venivano offerti ai risparmiatori, ossia di violazioni in materia di pratiche commerciali nell’ambito della compravendita di strumenti finanziari. Nel caso di specie, il Garante ha stabilito che le società “hanno offerto l’acquisto di diamanti da investimento diffondendo informazioni omissive ed ingannevoli in merito alle caratteristiche dell’investimento proposto, al prezzo dei diamanti e alla convenienza economica di tale acquisto.

In particolare, nel materiale promozionale e illustrativo […] e in quello utilizzato dal personale delle banche alle quali si rivolgeva il consumatore interessato all’acquisto, si rappresentavano in modo ingannevole ed omissivo: a) il prezzo di vendita dei diamanti – autonomamente fissato dal professionista e comprendente costi e margini di importo complessivamente superiore al valore della pietra – presentato come quotazione di mercato e pubblicato a pagamento su giornali economici; b) l’aspettativa di apprezzamento del valore futuro dei diamanti, attraverso grafici costruiti sull’andamento dei propri prezzi di vendita presentati come “quotazioni”, messe a confronto con indici ufficiali e quotazioni di titoli stabilite in mercati regolamentati; c) la facile liquidabilità e rivendibilità del diamante, quando invece l’unico canale di rivendita attraverso il quale avrebbero potuto essere realizzati i guadagni prospettati è rappresentato dagli stessi professionisti; d) la qualifica di leader di mercato, impiegata senza ulteriori precisazioni, al fine di conferire un maggiore affidamento alla propria offerta.”.

A ciò si aggiunga l’accertamento di violazioni in materia di diritto di recesso del consumatore e di foro competente, nella modulistica che le due società avevano predisposto per la compravendita delle pietre.

Le motivazioni della decisione

Il Garante, nel comminare le multe, ha riscontrato violazioni delle norme a tutela dei consumatori, contenute nel D.Lgs. n. 205/2006 (c.d. Codice del consumo). Rimangono sullo sfondo, dunque, i profili di responsabilità per violazione di norme in materia d’intermediazione finanziaria, che hanno sempre accompagnato la compravendita di strumenti e titoli.

Anche perché il presupposto è che, non esistendo in teoria un limite al godimento dei diamanti acquistati a fini d’investimento, secondo la Consob non dovrebbe essere applicabile la disciplina del Testo unico in materia d’intermediazione finanziaria, anche se la vendita avviene attraverso canali bancari, “a meno che tale vendita non si configuri esplicitamente come offerta di un prodotto finanziario, grazie alla esplicita previsione, anche tramite contratti collegati, di elementi come, ad esempio, promesse di rendimento, obblighi di riacquisto, realizzazione di profitti ovvero vincoli al godimento del bene.”.

Dall’accertamento dell’Autorità Garante, è emerso che le società e le banche presentavano l’investimento in diamanti come assolutamente sicuro, sia con riferimento alla conservazione del valore nel tempo (ed al trend positivo del prezzo dei diamanti), sia in relazione alla facilità di rivendita, anche grazie ad una rete commerciale messa a disposizione dalle due società incriminate. Il prezzo più alto praticato da I.D.B. e D.P.I. era giustificato con servizi aggiuntivi erogati al risparmiatore; tra questi, il principale era senza dubbio l’assistenza alla rivendita dei diamanti, al prezzo pubblicato sui maggiori quotidiani ed in un lasso di tempo molto breve.

Messi di fronte all’acquisto di un bene rifugio facilmente rivendibile, molti correntisti sono stati convinti ad investire i loro soldi. Il punto è che l’Antitrust ha stabilito che essi sono stati ingannati.

Infatti, l’istruttoria del Garante ha accertato che il prezzo – effettivamente pubblicato dalle società venditrici su Il Sole 24 Ore – non aveva in realtà alcun riferimento al valore di mercato delle pietre (individuato sulla base di indici di riferimento internazionali), ma era fissato dall’intermediario in modo del tutto arbitrario. L’Autorità ha calcolato che solo una parte del prezzo fosse costituito dall’effettivo prezzo di mercato della pietra. La parte rimanente era costituita da commissioni, i.v.a. e un margine di profitto che I.D.B. e D.P.I. si erano ritagliate. Questa modalità di fissazione del prezzo – di cui pare fossero all’oscuro anche le banche intermediarie – ha prodotto il risultato di un esborso ingiustificato per il risparmiatore, ben superiore al valore di mercato.

Anche l’andamento crescente dei prezzi delle pietre, che veniva rappresentato come prospettiva redditizia agli investitori, era in realtà scollegato dagli indici internazionali, presentandosi come andamento annuale del prezzo di vendita delle imprese, progressivamente aumentato dai venditori.

Circa la facilità di rivendita delle pietre (dunque di disinvestimento), è emerso che le società non riacquistavano direttamente i diamanti ma si limitavano semplicemente a cercare un nuovo acquirente all’interno del loro circuito di riferimento, avvalendosi di società d’intermediazione da loro controllate. Questo meccanismo non dava in realtà alcuna garanzia sui tempi e sul prezzo di rivendita; anzi, dati del Garante alla mano, per gli investimenti a breve termine la volontà di rivendere i diamanti si traduceva sempre in una perdita per il consumatore. Anche perché le società applicavano una commissione in caso di rivendita, variabile a seconda degli anni in cui si era mantenuto l’investimento.

In tutto ciò, le quattro banche coinvolte sarebbero responsabili per aver consigliato – anche con insistenza – l’investimento in diamanti ritenuto come sicuro, senza fornire le adeguate informazioni e addirittura spingendo alcuni clienti a disinvestire denaro per destinarlo all’acquisto delle pietre, accogliendo in modo acritico il materiale informativo predisposto dalle due società venditrici. Il Garante ha affermato che “il fatto che l’investimento fosse proposto da parte del personale bancario e la presenza del personale bancario agli incontri tra i due professionisti e i clienti, forniva ampia credibilità alle informazioni contenute nel materiale promozionale delle due società, determinando molti consumatori all’acquisto senza effettuare ulteriori accertamenti.”.

Del resto, le banche rappresentavano il principale canale di vendita dei diamanti, ed avevano stipulato con I.D.B. e D.P.I. particolari accordi commerciali, che portavano nelle loro casse commissioni crescenti in base al volume di collocamento delle pietre presso la loro clientela.

Se è vero che ad oggi entrambe le società hanno fatto ricorso al T.a.r. contro il provvedimento del Garante, è anche vero che nel frattempo sono stati aperti tavoli con le principali associazioni dei consumatori per modificare le pratiche di commercializzazione dei diamanti.

Nessun dubbio, però, sul fatto che i due provvedimenti Antitrust, avendo accertato determinate condotte in violazione alla Legge, abbiano aperto la strada alla tutela giurisdizionale di quei risparmiatori che con i diamanti hanno solo perso denaro.

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