Il danno non patrimoniale tra sistema tabellare e tendenze giurisprudenziali

Il recente consolidamento di un filone giurisprudenziale della Sezione III della Corte di Cassazione, unitamente a recenti provvedimenti in discussione in Parlamento, ci hanno offerto lo spunto per parlare di alcune problematiche che da anni coinvolgono il danno non patrimoniale ed il suo risarcimento, ripercorrendo alcuni passaggi fondamentali fino alla situazione attuale.

Le plurime voci di danno e il pericolo di duplicazioni risarcitorie: le Sezioni Unite e le tabelle

I danni che una persona ha subìto da un fatto illecito altrui possono incidere a più livelli nella sua sfera personale. Che sia stata vittima di un reato, o abbia subito una menomazione fisica, la vita di una persona può rimanere profondamente segnata da eventi cagionati da condotte altrui, con la conseguente necessità di ottenere un risarcimento per la sofferenza patita. Quelli di cui si parla in questo caso sono danni non patrimoniali, che non comportano una diminuzione delle sostanze del danneggiato, ma provocano una lesione non immediatamente convertibile in un valore monetario.

Le molteplici dimensioni che caratterizzano la vita delle persone hanno portato all’elaborazione di plurime voci di danno non patrimoniale, come ad esempio il danno biologico, esistenziale o morale. Ciascuna identifica la lesione di uno specifico ambito della vita, con la necessità di stabilire le modalità per la quantificazione di ciascuna voce. La degenerazione di tale sistema aveva portato spesso, però, a duplicazioni risarcitorie, nel senso che una medesima conseguenza dannosa veniva risarcita più volte solo perché, in un certo senso, le si cambiava etichetta.

Per questo era intervenuta un’importante presa di posizione da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, nel 2008 (anno delle c.d. sentenze gemelle di S. Martino: Cass. civ., Sez. Un., sentt. n. da 26972 a 26975/2008), avevano affermato la natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale, finalizzata anche ad evitare duplicazioni risarcitorie attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici. Al tempo stesso, con le medesime sentenze, si era affermato il principio per cui fosse necessario superare la c.d. soglia di risarcibilità, sotto cui il danno è da considerarsi bagatellare e non meritevole di risarcimento.

A queste pronunce si era andata via via adeguando gran parte della giurisprudenza successiva, producendo talvolta un indiretto appiattimento – da alcuni giudicato eccessivo – su di un sistema risarcitorio basato sulle tabelle elaborate da alcuni Tribunali italiani.

Come accennato, infatti, il danno non patrimoniale necessita di essere valutato economicamente e convertito in denaro, per poi essere risarcito. Alcuni Tribunali (in particolare Milano e Roma) avevano sviluppato in sistema di tabelle che tenessero conto dell’età della persona al momento del danno e delle percentuali d’invalidità attribuite dalle valutazioni medico-legali, per poi tradurre il tutto in valori economici. Si tratta di un sistema incentrato sul danno biologico, applicabile con apposite personalizzazioni anche ai danni morali ed esistenziali. A partire dal 2011, la Cassazione aveva poi affermato più volte che le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano sono applicabili su tutto il territorio nazionale.

L’interpretazione delle Sezioni Unite del 2008, con l’applicazione di tabelle fondate sulle percentuali del danno biologico, aveva finito per privare di autonomia ontologica le voci di danno morale ed esistenziale (divenute semplici categorie descrittive), ricomprese all’interno dell’unitaria categoria del danno non patrimoniale e risarcite tramite la personalizzazione del danno biologico in base ai calcoli tabellari.

La giurisprudenza sull’autonomia del danno esistenziale

A dispetto di queste importanti prese di posizione, il sistema del danno non patrimoniale non riusciva a trovare un assetto stabile e definitivo.

Da un lato, infatti, si riscontrava la resistenza di alcuni Tribunali (in particolare Roma) nell’utilizzare le tabelle milanesi (con il rischio di una forte differenziazione nel risarcimento a seconda del Foro in cui si proponeva la domanda), dall’altro alcune pronunce della Suprema Corte si discostavano parzialmente dalla ricostruzione delle Sezioni Unite del 2008, riportando in auge, come categoria ontologicamente autonoma e dunque autonomamente risarcibile, il danno esistenziale.

Ad esempio, era il caso di Cass. civ., Sez. III, sent. n. 531/2014, secondo cui “la mancanza di danno biologico non esclude la configurabilità del danno morale soggettivo e di quello dinamico-relazionale, quale conseguenza autonoma della lesione e pertanto, ove il fatto lesivo abbia profondamente alterato il complesso assetto dei rapporti personali all’interno della famiglia, il danno non patrimoniale per lesione di interessi costituzionalmente protetti deve trovare ristoro nella tutela apprestata dall’art. 2059 cod. civ.”. Conforme anche la successiva Cass. civ., Sez. III, sent. n. 18611/2015, che, nel cassare una sentenza d’appello che non aveva riconosciuto autonoma valutazione al danno esistenziale, affermava che “non si tratta di una duplicazione di voci di danno, ma della negazione del diritto del macroleso a ricevere un equo ristoro per il risarcimento della perdita della sua dignità di persona e di diritto alla vita attiva”.

In questo complicato (e importantissimo, dato che incide sul diritto dei danneggiati ad ottenere un adeguato risarcimento) quadro, si sono inserite due recenti novità: la prima legislativa, la seconda giurisprudenziale.

Il disegno di Legge in discussione in Parlamento

Dal punto di vista legislativo, lo scorso 21 marzo la Camera dei Deputati ha approvato in prima lettura il disegno di Legge n. 1063-A recante “Modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale”. Con questa normativa s’introdurrebbe l’art. 84-bis disp. att. c.c., con la previsione di utilizzare le Tabelle del Tribunale di Milano sia per il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica, sia del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto di tipo familiare. Sarebbe inoltre prevista la possibilità di aumentare il risarcimento del 50% in base alle condizioni soggettive del danneggiato.

La recente giurisprudenza della Sezione III che rifugge gli automatismi risarcitori

Circa l’evoluzione giurisprudenziale, nel corso del 2016 sono intervenute una serie di pronunce che tendono a marginalizzare la liquidazione del danno tramite tabelle, in favore di una maggior attenzione al caso concreto e alla sofferenza patita dal danneggiato.

In questo senso, la sentenza più significativa è senz’altro Cass. civ., Sez. III, sent. n. 7766/2016, (relatore dott. Travaglino), che – inserendosi nel solco tracciato dal medesimo relatore con precedenti pronunce – ha stabilito l’autonomia ontologica del danno morale.

Ad onor del vero, si tratta di un arresto che non giunge isolato, posto che molteplici erano state le voci, in parziale disaccordo con le sentenze del 2008, che avevano parlato dell’autonoma sussistenza del pregiudizio morale. Si vedano ad esempio, per citare pronunce con relatori diversi dal dott. Travaglino, Cass. civ., Sez. III, sent. n. 11701/2009 e Cass. civ., Sez. III, sent. n. 5770/2010. In quest’ultima pronuncia si affermava l’impossibilità di quantificare la sofferenza morale come una percentuale del danno biologico, rifuggendo gli automatismi risarcitori imposti dalle tabelle, il tutto per “rendere la somma liquidata adeguata al particolare caso concreto ed evitare che la stessa rappresenti un simulacro di risarcimento”.

La pronuncia n. 7766/2016 compie un ragionamento articolato sul quale vale la pena di soffermarsi, riportandone anche ampi passaggi, per giungere ad affermare che danno morale e danno esistenziale sono “i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo.

Riprendendo la sentenza n. 235/2014 delle Corte costituzionale, la Sezione III della Cassazione afferma che, al di fuori del circoscritto ambito delle lesioni c.d. micro-permanenti, l’aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali (c.d. danno esistenziale) della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, senza che si possa parlare di duplicazione risarcitoria.

Al tempo stesso, secondo la Cassazione, una diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore, ossia al danno morale, senza che alcun automatismo risarcitorio sia predicabile. Quindi “Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell’essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza”.

Il Giudice chiamato a valutare e quantificare il risarcimento del danno non patrimoniale dovrà, allora, tenere conto della prova della sofferenza patita dal danneggiato, facendo riferimento alle sue condizioni soggettive e potendo anche ricorrere a presunzioni e a fatti notori, se del caso in via esclusiva, come del resto era già stato affermato dalle Sezioni Unite del 2008.

Insomma, se al danno esistenziale sembra riconosciuta un’autonomia e una quantificazione attraverso la personalizzazione effettuabile con i calcoli tabellari, anche il danno morale merita un risarcimento ad hoc, sganciato da rigidi calcoli. Interessante quanto affermato dal dott. Travaglino nella sentenza n. 7766/2016: “al di là delle sterili diatribe terminologiche, sarebbe sufficiente al giudice (a qualsiasi giudice) dismettere il supponente abito di peritus peritorum ed ascoltare la concorde voce della scienza psicologica, psichiatrica, psicoanalitica, che comunemente insegna, nell’occuparsi dell’essere umano, che ogni individuo è, al tempo stesso, relazione con se stesso e rapporto con tutto ciò che rappresenta “altro da se”, secondo dinamiche chiaramente differenziate tra loro, se è vero come è vero che un evento destinato ad incidere sulla vita di un soggetto può (e viceversa potrebbe non) cagionarne conseguenze sia di tipo interiore (non a caso, rispetto al dolore dell’anima, la scienza psichiatrica discorre di resilienza), sia di tipo relazionale, ontologicamente differenziate le une dalle altre, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, necessariamente indagabili, caso per caso, quanto alla loro concreta (e non automatica) predicabilità e conseguente risarcibilità.

E tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza umana.

È questo il compito cui è chiamato il giudice della responsabilità civile, che non può mai essere il giudice degli automatismi matematici ovvero delle super-categorie giuridiche quando la dimensione del giuridico finisce per tradire apertamente la fenomenologia della sofferenza.”.

Sulla stessa lunghezza d’onda anche le successive sentenze, sempre della Sezione III (relatore dott. Scarano), nn. 21058 e 21059/2016. Nel primo caso, sempre con riferimento al danno morale, si è affermata l’esclusione di una liquidazione affidata a meccanismi semplificativi di tipo automatico, ritenendo errato il ricorrere a frazioni dell’importo liquidato a titolo di danno biologico. Nel secondo caso, invece, si è cassata la sentenza d’appello perché non aveva liquidato il danno esistenziale.

In entrambe queste sentenze la Corte ha sottolineato che, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non già il nome (biologico, morale o esistenziale) assegnato dal giudice al pregiudizio lamentato, ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame nel processo. Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l’uso di nomi diversi. Infatti, è compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio subìto, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative si siano verificate sulla persona, e provvedendo al relativo integrale ristoro.

In conclusione, è possibile affermare che il sistema del risarcimento del danno non patrimoniale conosce tuttora una forte tensione, data da spinte contrapposte. Da un lato, infatti, si afferma l’importanza dell’utilizzo di tabelle unitarie su tutto il territorio nazionale, dall’altro si rifuggono le semplificazioni risarcitorie e si riscopre la complessità del danno alla persona, imponendone il risarcimento sì unitario e onnicomprensivo, ma tenendo conto delle molteplici lesioni che possono essere provocate all’individuo nel caso concreto.

La nuova Legge sulla responsabilità del medico

Lo scorso 28 febbraio è stata approvata in via definitiva dalla Camera la c.d. Legge Gelli (L. n. 24/2017), di cui più volte abbiamo dato conto nelle nostre news. Entrata in vigore il 1 aprile, questa Legge composta di 18 articoli si propone di superare le incertezze interpretative causate dalla precedente L. n. 189/2012, ridefinendo i confini della responsabilità del sanitario e operando un bilanciamento tra diritti in capo a medico e paziente.

Il contenuto di quello che allora era un disegno di legge è già stato esaminato nelle news del giugno scorso, ragion per cui in questo caso ci soffermeremo sugli aspetti più significativi che riguardano l’ambito della responsabilità civile del medico.

In ambito penale, invece, fondamentale è l’introduzione dell’art. 590-sexies c.p., che prevede una causa di non punibilità per il medico che, nella sua condotta, abbia rispettato le linee guida (elaborate da enti e istituzioni iscritti in un elenco gestito dal Ministero) o le buone pratiche clinico-assistenziali che risultino adeguate alla specificità del caso concreto. Viene dunque meno il richiamo alla colpa lieve, contenuto nella previgente Legge Balduzzi.

Dal punto di vista della responsabilità civile, l’aspetto più significativo, già evidenziato in sede di d.d.L., riguarda la determinazione legislativa della natura della responsabilità del medico e della struttura ospedaliera (art. 7).

Nel caso della struttura sanitaria, la legge parla di responsabilità contrattuale. Si tratta di un’affermazione su cui la giurisprudenza si era ormai consolidata, facendo riferimento al contratto atipico di spedalità, che il paziente concluderebbe con la struttura al momento del ricovero. Trattandosi di un contratto a contenuto ampio e complesso, includente prestazioni di assistenza e obblighi di protezione, già prima della Legge Gelli era stato affermato che in caso di comportamento negligente o colposo del medico ne rispondesse anche l’ospedale o la clinica. Questo perché è solo attraverso il medico che la struttura può erogare le prestazioni sanitarie comprese all’interno del contratto di spedalità.

Per quanto riguarda il singolo medico, invece, l’art. 7 della Legge Gelli prevede che egli risponda dei danni eventualmente cagionati al paziente a titolo di responsabilità extracontrattuale. Il legislatore pone così rimedio alle incertezze provocate dall’art. 3 della Legge Balduzzi, ma ribalta anche totalmente gli assunti della giurisprudenza di legittimità, che riconduceva le prestazioni sanitarie all’interno del c.d. contatto sociale, e dunque della responsabilità contrattuale. Tuttavia, la norma si premura di escludere la responsabilità extracontrattuale del medico nei casi in cui la prestazione sanitaria sia eseguita in costanza di un rapporto contrattuale con il paziente. Le prestazioni intramoenia, invece, rimangono nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, ma le strutture sanitarie risponderanno sempre a titolo contrattuale.

L’art. 7 prevede anche che il danno risarcibile ai pazienti sia quantificato in base alle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del D.Lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private). Se ciò vale per le lesioni di entità inferiore al 9% di invalidità permanente, per quelle di gravità superiore si potranno applicare le tabelle milanesi, dato che non risultano ancora adottate tabelle uniche su tutto il territorio nazionale.

L’aver stabilito una responsabilità – almeno di norma – extracontrattuale in capo al medico, rende di sicuro maggiormente gravosa la proposizione di azioni da parte dei pazienti, posto il termine di prescrizione quinquennale che caratterizza tale responsabilità e la necessità di provare anche tutti gli elementi della fattispecie (condotta, danno, nesso di causa ed elemento soggettivo). Non a caso, è stato notato dai primi commentatori come al fine di evitare il dilagare della c.d. medicina difensiva, il legislatore abbia voluto rendere più difficile agire contro il medico, dando in cambio la possibilità di chiedere sempre il risarcimento a titolo contrattuale alle strutture sanitarie.

Contrappeso a questo sistema è l’azione di rivalsa esercitabile, da parte degli istituti, nei confronti del medico, ma solo in caso di dolo o colpa grave ed entro un anno dal pagamento del risarcimento al paziente (art. 9).

In questo quadro assumono un ruolo centrale le assicurazioni, di cui gli istituti devono obbligatoriamente dotarsi a copertura del rischio per i danni cagionati dal personale, a qualunque titolo esso operi (cfr. art. 10). Come nell’ambito della circolazione stradale, poi, il paziente che abbia subìto un danno ha azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazioni, con obbligo però di citare anche la struttura sanitaria o il medico responsabile (art. 12).

Tuttavia, non si potrà agire in giudizio senza prima aver esperito un tentativo di conciliazione (art. 8). La novità della norma riguarda non tanto il richiamo all’istituto della mediazione – già obbligatoria come condizione di procedibilità in molti casi – ma, in alternativa, all’accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696-bis c.p.c.

Di conseguenza, se si sceglie questa seconda strada, verrà effettuata una consulenza tecnica da un collegio di medici (cfr. art. 15), che cercheranno anche di conciliare le parti. In quest’attività assume rilevanza l’offerta economica che l’impresa di assicurazione (obbligata a partecipare al procedimento) deve necessariamente fare al danneggiato (oppure comunicare i motivi per cui ritiene di non farla), ai sensi dell’art. 8, pena la trasmissione della sentenza favorevole al paziente all’Ivass, per le verifiche del caso.

Il termine per esperire l’accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi è di sei mesi, decorsi i quali la domanda giudiziale diviene procedibile. La Legge Gelli sembra poi prevedere che, in caso si sia optato per l’a.t.p. invece della mediazione, la successiva causa debba essere necessariamente introdotta con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c.

Pur se già in vigore, la L. n. 24/2017 necessità comunque di alcuni passaggi attuativi per divenire pienamente operativa. Infatti, dovranno essere definite le funzioni di vigilanza dell’Ivass sulle imprese di assicurazione, le cui polizze (divenute obbligatorie) dovranno essere definite nei requisiti minimi con un decreto ministeriale entro 120 giorni dalla pubblicazione della Legge.

Infine, sempre entro 120 giorni andrà adottato il regolamento del fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, previsto dall’art. 14. Si tratta di uno strumento finanziato da versamenti da parte delle compagnie assicurative, volto a garantire i pazienti in caso di danni che eccedano i massimali, o in caso d’insolvenza della compagnia o ancora in presenza di una scopertura assicurativa.

Il danno nelle azioni di responsabilità verso gli organi sociali

Con la recente sentenza n. 38/2017, la Sezione I della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sui criteri di quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità esperite nei confronti degli organi sociali. Questa pronuncia ci fornisce lo spunto per compiere una breve analisi delle criticità e degli interventi giurisprudenziali che si sono registrati negli ultimi anni sul punto, con particolare riferimento alle azioni promosse dalle curatele.

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore

Delle molteplici azioni che possono essere esperite nei confronti degli amministratori e sindaci di una società, un particolare rilievo pratico assume quella esercitata dal curatore fallimentare, ai sensi dell’art. 146 L.f. Questa disposizione consente all’organo della procedura di far valere in giudizio le azioni che spetterebbero alla società e ad i creditori sociali in una volta sola. Tralasciando il dibattito sulla natura di questa azione (se nell’interesse della massa, cumulativa, scindibile o meno), non si può fare a meno di notare come le richieste risarcitorie nei confronti degli organi societari siano, nella maggior parte dei casi, mosse proprio dai curatori, una volta che la società è divenuta insolvente ed è stata dichiarata fallita. Ciò perché molte volte le maggioranze assembleari necessarie ad agire in giudizio coincidono con quelle del gruppo di controllo, di cui gli amministratori sono espressione. I creditori sociali, poi, talvolta non sono in possesso di dati fondamentali ad intraprendere simili azioni.

Le azioni di responsabilità, nei confronti di qualunque organo e all’interno di qualsiasi tipo di società, sono azioni risarcitorie, dunque finalizzate ad ottenere una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno. Non possono sussistere simili azioni senza un danno, la cui prova spetta sempre a chi agisce in giudizio (indipendentemente dalla natura – contrattuale o extracontrattuale – che viene riconosciuta alle diverse tipologie di azione). Nel caso dell’art. 146 L.f., dunque, spetterà al curatore non solo provare l’esistenza di un danno, ma anche quantificarlo.

L’ambito applicativo della liquidazione in via equitativa

Con riferimento a quest’ultimo aspetto (la quantificazione del danno), in molti casi essa può essere particolarmente complessa, perché se anche si riesce a provare l’esistenza di conseguenze patrimoniali sfavorevoli per la società, causate da determinate condotte degli organi di gestione o di vigilanza, non sempre è possibile determinarne il preciso ammontare. In questi casi, allora purché sia stata provata l’esistenza del pregiudizio, è possibile per il giudice ricorrere alla liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c.

Come precisato anche da due recenti sentenze (Cass. civ., Sez. III, sentt. n. 127 e 6218/2016) il potere del giudice di procedere a liquidazione equitativa può essere esercitato a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile sia stata dimostrata, e nel solo caso di obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova della sua quantificazione. Perciò, nel nostro caso, è compito della curatela dimostrare ogni elemento di fatto di cui possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficoltà, per far sì che la valutazione equitativa colmi soltanto le lacune riscontrate insuperabili nella precisa quantificazione del danno.

La corretta quantificazione del danno risarcibile assume un ruolo centrale nelle azioni di responsabilità verso gli organi sociali: è quella la somma di cui le singole persone fisiche, che rivestono le cariche, saranno chiamate a rispondere, nonché manifestazione del rischio per le quali le medesime si assicurano.

Le Sezioni Unite del 2015 sul criterio del deficit fallimentare

Le molteplici difficoltà che si riscontrano in controversie caratterizzate da un alto grado di complessità contabile, unitamente al ricorso al criterio equitativo, hanno portato spesso ad un’eccessiva semplificazione nella quantificazione delle richieste economiche. Le curatele hanno finito così per richiedere ad amministratori e sindaci (ma anche ai singoli soci, nel caso di s.r.l.) somme molto elevate, pari alla differenza tra attivo e passivo accertato in sede fallimentare. Il ricorso al deficit fallimentare, cui spesso si è fatto utilizzo in presenza di violazioni ampie e generalizzate o di mancanza o alterazione della contabilità, è un criterio che rischia di essere errato sia per eccesso (si pensi alla rettifica del valore dei cespiti in ottica fallimentare) sia per difetto (non tutti i creditori potrebbero essersi insinuati al passivo).

Proprio al fine di porre rimedio all’utilizzo distorto del criterio del deficit fallimentare per quantificare il danno, è intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 9100/2015.

Lo spunto deriva da due sentenze del 2011 (la n. 5876 e la n. 7606), le quali, in contrasto con la giurisprudenza che si era ormai delineata, avevano affermato che la totale mancanza di scritture contabili – come nel caso di contabilità sommaria e non intellegibile – di per sé giustifica la condanna dell’amministratore, in quanto la violazione di tale obbligo non consente, di fatto, alla curatela attrice di provare il nesso eziologico e, quindi, giustifica l’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore convenuto, che deve dimostrare che il dissesto non è riconducibile alla sua condotta.

Muovendo dal principio dell’onere della prova, le Sezioni Unite affermano che chi agisce in responsabilità deve provare il danno ed il nesso di causa tra la condotta che si assume tenuta dal danneggiante (che andrà almeno allegata in giudizio) ed il danno medesimo.

A questo punto le Sezioni Unite si pongono un interrogativo cruciale: esiste un inadempimento degli organi sociali tale da provocare un danno corrispondente all’intero deficit fallimentare? La risposta è che un danno di tale portata potrebbe essere determinato soltanto da quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da incidere sull’intero patrimonio sociale o, comunque, da quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza. Ecco allora che, nel contesto di un’attività d’impresa, connotata per sua natura dal rischio di possibili perdite, la pretesa di far coincidere il danno risarcibile con l’intero deficit fallimentare a fronte di singole condotte addebitate ad amministratori e sindaci perde ogni fondamento.

Ciò soprattutto se si considera l’inadempimento che tradizionalmente è stato ritenuto causa di un danno così ampio, cioè la mancanza o irregolarità delle scritture contabili. Le Sezioni Unite affermano che le scritture contabili registrano accadimenti economici, non li determinano. Per questo, l’unica conseguenza economicamente plausibile, derivante da omissioni in contabilità, appare essere il maggior onere nell’espletamento dei compiti del curatore (dunque un maggior costo per la procedura), non certo l’insolvenza della società.

La Corte si spinge oltre: l’intero deficit fallimentare non può essere addebitato agli organi della società neppure perché la mancanza dei bilanci impedisce al curatore di quantificare il danno sofferto, giustificando – in base al c.d. principio di vicinanza della prova – lo spostamento dell’onere della prova di danno e nesso di causa in capo agli organi sociali. Il principio di vicinanza della prova è applicabile, infatti, solo quando l’attore ha allegato un inadempimento astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si pretende il risarcimento. Ed ecco che, se è vero che la mancanza (o l’irregolarità) delle scritture contabili non appare legata da alcun nesso di causalità, neppure potenziale, con il danno costituito dal deficit fallimentare, allora non può giustificarsi lo spostamento dell’onere della prova a carico degli organi della società convenuti in giudizio.

In caso contrario, il risarcimento del danno assumerebbe natura sanzionatoria, volto a colpire condotte di amministratori e sindaci contrarie alla Legge ma non causative di un danno alla società o ai creditori.

La conclusione del ragionamento delle Sezioni Unite del 2015 ritorna sulla quantificazione equitativa del danno. In caso di difficoltà nello specificare economicamente il danno subìto, la curatela può invocare l’art. 1226 c.c. Ecco allora che, solo a fini di quantificazione, il giudice potrà tenere conto del deficit fallimentare, motivando in modo puntuale quali siano state le ragioni che non hanno consentito l’accertamento degli specifici effetti dannosi causalmente riconducibili alla condotta degli organi sociali, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto che rendono il ricorso al criterio del deficit logicamente plausibile.

Insomma: provata la sussistenza del danno e il nesso di causa con l’inadempimento allegato, il criterio equitativo può tenere in considerazione il deficit fallimentare con tutte le cautele del caso. La valutazione equitativa interviene solo in questi casi e non per determinare il nesso di causa, come, di fatto, era avvenuto nelle sentenze del 2011.

La giurisprudenza successiva, tra conferme e oscillazioni

In giurisprudenza, a fronte di pronunce che già avevano raggiunto le medesime conclusioni delle Sezioni Unite (cfr. Trib. Milano, sent. 22.01.2015 e Trib. Prato, 14.09.2012) vi sono Tribunali che si sono sostanzialmente allineati alla Suprema Corte, come Trib. Ferrara, sent. 1.03.2016 e anche Trib. Pistoia, sent. 19.01.2016, che ha bandito criteri di individuazione e liquidazione del danno che prescindano dal rigoroso accertamento di quali siano le conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e ritenute sussistenti.

Curiosa, invece, C. App. Catania, sent. 30.06.2015 che, nel mentre dichiara di uniformarsi ai principi di cui alla sentenza n. 9100/2015, ritiene che le omissioni contabili e la tipologia di crediti ammessi al passivo (verso erario ed enti previdenziali) siano circostanze gravi precise e concordanti idonee a ritenere provato il nesso causale tra i comportamenti addebitati agli amministratori ed il danno lamentato. Risulta, a detta della Corte d’Appello, così giustificata la richiesta di risarcimento correlata alla differenza tra attivo e passivo fallimentare. In altre parole, si utilizzano gli elementi che le Sezioni Unite vorrebbero a base del ragionamento equitativo per la quantificazione del danno, come presunzioni di nesso causale tra danno e condotte addebitate agli amministratori. Proprio le stesse condotte, peraltro, che le Sezioni Unite avevano giudicato inidonee a cagionare un pregiudizio pari al deficit fallimentare.

In questo quadro s’inserisce da ultimo Cass. civ., Sez. I, sent. n. 38/2017, che riprende ed applica correttamente il principio di diritto enunciato nel 2015 dalle Sezioni Unite. Anche in questo caso la Corte ha cassato la sentenza d’appello che aveva condannato amministratori e sindaci al risarcimento di una somma pari al deficit fallimentare, ritenendoli responsabili di aver smarrito i libri sociali. La Cassazione, richiamando l’autorevole precedente, ribadisce come il fatto che il danno possa essere liquidato equitativamente non implica l’applicazione di un criterio di meccanica commisurazione di esso alla differenza tra attività e passività sociali.

La corretta applicazione dei principi di diritto fin qui esaminati, se ha il pregio di fare chiarezza sulla prova del danno e del nesso di causalità, renderà certamente più complesse le azioni esperite dalle curatele. L’esigenza di attribuire agli organi sociali danni economici solo effettivamente provocati talvolta si può scontrare con una contabilità alterata ad arte, che rende impossibile una quantificazione del danno, soprattutto se si pensa ad azioni che iniziano ad anni di distanza dalle condotte incriminate.

Ad ogni modo, tutto dipenderà dal tipo di approccio, più o meno rigoroso (o, se si preferisce, più o meno filo-curatela) che i giudici di merito sceglieranno. Bisognerà vedere, cioè, se i Tribunali si accontenteranno di una motivazione “di stile” delle ragioni per le quali l’attore non sia riuscito ad assolvere l’onere della prova, o se invece ne esigeranno una effettiva. Questa dovrà dare conto di un attento e scrupoloso tentativo di ricostruzione del danno risarcibile, e delle ragioni per le quali il ricorso al criterio del deficit fallimentare si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Se la puzza di fritto è considerata (anche) reato

Si tratta di una sentenza che ha avuto un certo eco, la n. 14467/2017 della Sezione III penale della Corte di Cassazione, perché ha sanzionato penalmente le emissioni di puzza di fritto che un condomino era stato accusato di provocare quotidianamente nel palazzo in cui abita.

Si tratterebbe, secondo la Corte, di una fattispecie da inquadrare nella contravvenzione di cui all’art. 674 del Codice penale, che punisce con l’arresto fino ad un mese o con l’ammenda fino ad € 206 “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”. Il produrre odori molesti in condominio sarebbe quindi “getto pericoloso di cose”, per riprendere la rubrica dell’articolo appena citato, e costituirebbe una vera e propria “molestia olfattiva”, secondo la Cassazione.

Si tratta di una pronuncia che non arriva isolata. Se è vero che probabilmente la puzza di fritto non era mai entrata nelle aule giudiziarie, la medesima Sezione III della Cassazione penale era già giunta alla medesima conclusione per le esalazioni di una pizzeria, con la sentenza n. 45225/2016.

Indubbiamente, inquadrare all’interno di un reato le immissioni sgradevoli di odori in condominio può avere un certo effetto deterrente. Questo è tanto più vero quanto ciò che interessa a chi abita a stretto contatto con la puzza è indubbiamente il farla cessare. La possibilità di ricorrere alla denuncia penale sarà, dunque, un’arma importante per i condomini esasperati, da utilizzare per rafforzare le proprie richieste di cessazione di certe condotte.

I rimedi civilistici e il recente intervento delle Sezioni Unite

Se poi, nel caso concreto, le esalazioni non integrassero un reato, soccorrono comunque i rimedi previsti dal diritto civile, finalizzati all’inibitoria dei comportamenti dannosi e ad ottenere un adeguato risarcimento del danno.

La norma di partenza, come per le immissioni sonore, è l’art. 844 c.c., il quale afferma: “Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.

Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.

In ambito civilistico, dunque, assume un ruolo centrale il criterio della normale tollerabilità. Solo rumori o esalazioni che superano tale soglia sono tali da rendere possibile il ricorso a strumenti di tutela da parte di chi li subisce. Questo criterio, più che finalizzato a indirizzare le condotte dei privati, serve a guidare la valutazione del giudice nella risoluzione di controversie tra vicini. La formula è volutamente generica e rimanda alla valutazione delle circostanze del caso concreto, come la condizione dei luoghi, le attività normalmente svolte in un determinato contesto produttivo, il sistema di vita e le correnti abitudini della popolazione del luogo. Si è poi affermato in giurisprudenza che la normale tollerabilità, pur essendo un criterio oggettivo, non è mai assoluta e va rapportata alla sensibilità di un uomo medio e alla specifica situazione ambientale (c.d. criterio comparativo).

Se gli odori sono intollerabili, i vicini o – come capita più spesso – i condomini, potranno agire in giudizio. La richiesta principale sarà la cessazione dei comportamenti che provocano le immissioni (c.d. inibitoria), accompagnata dal risarcimento del danno (anche non patrimoniale), nel caso in cui esse abbiano avuto un impatto negativo sulle proprie condizioni di vita (si pensi, ad esempio, ai rumori che non fanno dormire la notte o ad odori che pregiudicano la piena libertà nelle abitudini quotidiane). Legittimato ad agire in giudizio è il proprietario dell’immobile che subisce le immissioni altrui, ma in virtù dell’interpretazione dell’art. 1585 c.c. la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere l’azione anche al conduttore.

Molto spesso, data l’urgenza di far cessare esalazioni o rumori intollerabili, si ricorre in giudizio ai sensi dell’art. 700 c.p.c., al fine di ottenere un provvedimento inibitorio d’urgenza, con tempi ridotti rispetto ad una causa ordinaria. Utile, data la natura del provvedimento di condanna a non fare dell’inibitoria, la possibilità di richiedere l’applicazione delle misure coercitive di cui all’art. 614-bis c.p.c. Non potendo materialmente impedire un comportamento da parte del condannato, infatti, l’ordinamento prevede che in questi casi il giudice possa fissare la somma di denaro dovuta al ricorrente per ogni giorno di ritardo nella cessazione delle condotte, o per ogni singola nuova violazione dell’ordine d’inibitoria. In questo modo, la condanna alla cessazione delle esalazioni sarà anche titolo esecutivo per riscuotere le somme dovute in caso di suo mancato rispetto.

Naturalmente, per ottenere una condanna in giudizio occorre fornire la prova della sussistenza d’immissioni che superano la normale tollerabilità. Fondamentale, in materia di odori, il ricorso alla testimonianza; in altri casi, come quello dei rumori, si ricorre spesso all’utilizzo di una consulenza tecnica, che valuti il superamento della normale tollerabilità.

Sul versante del risarcimento del danno conseguente ad immissioni, si segnala la recente presa di posizione delle Sezioni Unite (n. 2611/2017), secondo cui il danno non patrimoniale da immissioni può essere risarcito anche nel caso in cui non sia stata documentata la sussistenza di un danno biologico. Infatti, se sono stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane (diritti costituzionalmente garantiti, e tutelati anche dall’art. 8 della C.E.D.U.), la prova del relativo pregiudizio può essere fornita anche attraverso presunzioni.