Brevi news su temi già affrontati

Banche, responsabilità del medico, unioni civili, novità in tema di concordato preventivo, diritto all’oblio: negli scorsi mesi abbiamo trattato molte tematiche in costante evoluzione. Cerchiamo di vedere brevemente cosa è successo di significativo in questi ultimi mesi.

Alcune notizie sulle banche

Il diritto bancario ha caratterizzato le nostre news, che hanno prima dato conto del c.d. decreto banche e poi analizzato la disciplina dell’anatocismo bancario alla luce delle ultime riforme. La scelta di rendere conto solo delle novità normative – e non di quelle più strettamente economiche o politiche – è inevitabile, dato il grande risalto che i media nazionali danno ogni giorno agli ambiti meno giuridici della questione. Al tempo stesso – fra voci che si rincorrono ed evoluzioni quotidiane – qualsiasi resoconto della situazione rischia di nascere già superato. Ragion per cui abbiamo deciso di dare conto soltanto di alcune notizie recenti, importanti e aventi risvolti significativi sui risparmiatori.

In primo luogo, in seguito al fallito aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena, il Governo ha varato, lo scorso 23 dicembre, il c.d. decreto salva risparmio (D.L. n. 237/2016). Si tratta di poco più di uno schema, che dovrà essere integrato, attuato e specificato in seguito alla conversione in Legge. Alcune misure, però, risultano subito evidenti, a partire dalla creazione di un fondo di € 20 miliardi, cui il Governo potrà attingere per singoli interventi su capitale e liquidità degli istituti di credito. Inoltre, il Governo potrà garantire – a fronte del pagamento di una commissione – l’emissione di nuove obbligazioni da parte di banche in difficoltà, che per il sottoscrittore prenderanno il grado di rischio dello Stato e non dell’emittente. Per Monte dei Paschi di Siena, in particolare, si prevede una ricapitalizzazione precauzionale e temporanea, con lo Stato che diventerà azionista della banca per poi rivendere le quote sul mercato una volta avvenuto il risanamento. Ciò consentirà al Ministero dell’Economia di dettare il nuovo piano industriale dell’istituto. Al tempo stesso, il Decreto Legge chiama a contribuire gli obbligazionisti subordinati, i cui titoli saranno convertiti in azioni al prezzo del 75% del valore nominale (ma è del 100% per le obbligazioni Tier 2, vendute alla clientela retail). Non si tratta di bail in, non applicabile in caso di sostegno pubblico straordinario, ma del cosiddetto burden sharing. In altre parole: gli obbligazionisti subordinati condivideranno parte delle perdite della banca.

In secondo luogo, è inevitabile uno sguardo alla Banca Popolare di Vicenza, molto presente sul territorio pratese in seguito all’incorporazione della Cassa di Risparmio di Prato. A tal proposito, mentre continuano a rincorrersi le voci di una fusione con Veneto Banca e dell’inevitabile aumento di capitale (con un versamento di € 600 milioni già anticipato dal Fondo Atlante), il Consiglio di Amministrazione della Banca ha presentato un piano di rimborso ai soci che hanno visto ridurre il valore delle proprie azioni da € 62,50 ad € 0,01. Le somme offerte si attestano sul 15% del valore delle azioni, da accettare entro fine marzo, rinunciando al tempo stesso a qualunque azione di rivalsa nei confronti dell’istituto. Pare che al rimborso si aggiungeranno offerte commerciali e condizioni economiche dedicate, che potrebbero far salire il corrispettivo rimborsato fino al 30%. Tuttavia, affinché il rimborso scatti, dovrà aderire alla proposta transattiva almeno l’80% dei soci interessati.

Inoltre, è opportuno dare conto dell’entrata in funzione, lo scorso 9 gennaio, dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie (A.C.F.), istituito presso la Consob. Si tratta di un organismo che avrà competenza sui servizi d’investimento, e dunque anche in materia di acquisti effettuati dal risparmiatore in presenza di violazioni delle norme di diligenza, correttezza e trasparenza a carico dell’intermediario. Il funzionamento è simile a quello dell’Arbitro Bancario Finanziario, per cui in seguito ad un reclamo scritto l’investitore potrà sottoporre la questione ad un collegio arbitrale, in modo del tutto gratuito. La decisione non preclude la via del Tribunale, ma è vincolante per l’intermediario finanziario, che è obbligato a partecipare al provvedimento.

Infine, una curiosità: è stata recentemente presentata alla Camera dei Deputati una proposta di Legge che modificherebbe l’art. 612-bis del Codice penale (è la norma sul c.d. stalking), punendo lo stalking bancario, e cioè condotte persecutorie e aggressive realizzate nei confronti dei cittadini dalle società di recupero crediti che lavorano per conto di banche, società finanziarie e grandi aziende.

Su diritto alla salute e responsabilità del medico

Il disegno di Legge Gelli – Bianco, di cui avevamo dato conto nella prima newsletter e che ridefinisce i confini della responsabilità civile e penale del medico, ha conosciuto un’accelerazione lo scorso mese di novembre, quando è stato approvato dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato. Dal 24 novembre scorso il testo si trova all’esame del Senato (n. 2224) ed è attualmente difficile, stante il clima politico e le diverse priorità economiche e sovranazionali, fare previsioni sulla sua approvazione in tempi brevi.

Nell’attesa di normative più chiare e definite, la giurisprudenza continua a delineare i confini della responsabilità del medico. La recente sentenza n. 22639/2016 della Cassazione ha stabilito che, in caso di tenuta negligente della cartella clinica, spetta al medico provare che le eventuali complicanze dannose insorte nel paziente non sono dovute al suo comportamento. In altre parole, la lacunosa compilazione della cartella clinica non esclude il nesso di causa tra condotta del medico e danno subito dal paziente; anzi, la giurisprudenza vi riconosce una presunzione di nesso causale a sfavore del sanitario. Cosicché spetterà a quest’ultimo, per il principio di vicinanza della prova, dimostrare che tale nesso non sussiste nel caso di specie.

I decreti attuativi delle unioni civili

Il 14 gennaio sono stati approvati in via definitiva dal Consiglio dei Ministri tre decreti legislativi attuativi della L. n. 76/2016 sulle unioni civili. Ognuno disciplina un ambito diverso: adeguamento delle norme in materia di stato civile, con riferimento ad iscrizioni e trascrizioni; modifica e riordino delle norme di diritto internazionale privato; disposizioni di coordinamento in materia penale.

Prima dell’approvazione definitiva, i tre decreti attuativi (approvati in via preliminare lo scorso 4 ottobre) hanno ottenuto il parere delle competenti Commissioni parlamentari. Seppur con un piccolo ritardo, si è dunque superato il regime transitorio e si è scongiurato il rischio dell’impossibilità di nuove unioni.

Il termine dell’iter era infatti previsto il 5 dicembre scorso, e il D.P.C.M. n. 144/2016 (c.d. decreto ponte) prevedeva disposizioni transitorie fino all’entrata in vigore dei decreti definitivi, per il quale il Governo aveva un termine di sei mesi (art. 1, comma 28, L. n. 76/2016). Il Consiglio di Stato, nel parere n. 1695/2016, aveva espressamente escluso l’efficacia del decreto ponte nel caso in cui il Governo non avesse approvato i decreti attuativi definitivi entro il termine previsto dalla Legge.

Con la recente approvazione da parte del Governo, le unioni civili sono ormai una realtà ben definita nel nostro ordinamento.

Il concordato preventivo e l’estensione per legge della falcidia i.v.a.

Sempre nella scorsa newsletter ci eravamo soffermati su di una pronuncia della Corte di Giustizia UE (Causa C-546/2014), che aveva smentito la giurisprudenza nazionale circa la possibilità di proporre domande di concordato preventivo che non prevedessero un soddisfacimento integrale del credito i.v.a. dello Stato.

Sulla scia della pronuncia sovranazionale, le Sezioni Unite della Cassazione, con le sentenze n. 26988/2016 e n. 760/2017, hanno stabilito che il credito i.v.a. non è falcidiabile solo in caso di transazione fiscale, dunque respingendo l’interpretazione a tutto campo della norma di cui all’art. 182-ter L. fall.

Ebbene, nell’attesa della riforma organica del diritto della crisi d’impresa predisposta dalla Commissione Rordorf ed attualmente in discussione in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, la Legge di Bilancio 2017 – da poco pubblicata in Gazzetta Ufficiale – ha modificato l’art. 182-ter della Legge Fallimentare. L’intervento pone fine alle incertezze interpretative, stabilendo che anche in caso di transazione fiscale è possibile soddisfare parzialmente il credito per i.v.a. e ritenute. Viene meno, quindi, la norma che era stata interpretata estensivamente e che rendeva impossibile, in certi casi, falcidiare il credito dello Stato per le suddette imposte. Da oggi, qualora il piano proposto dal debitore preveda una soddisfazione del credito i.v.a. dello Stato “in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) della Legge fallimentare” nessun ostacolo sussiste alla falcidia.

Il diritto all’oblio e i suoi limiti

Nella scorsa newsletter avevamo ricordato la legge sul cyberbullismo in discussione al Senato dopo l’approvazione del testo da parte della Camera dei Deputati. Come per il disegno di Legge in materia di responsabilità medica, anche su questo testo – per la verità molto discusso – è impossibile fare previsioni circa i tempi di approvazione, soprattutto nel caso in cui il Senato decidesse di apportarvi modifiche.

Nel frattempo si segnala il provvedimento del Garante della Privacy del 6.10.2016, che ha ribadito come il diritto all’oblio debba soccombere innanzi all’interesse del pubblico alla conoscenza di una vicenda che abbia ad oggetto un reato grave. La questione riguardava un soggetto condannato per reati di corruzione e truffa in danno della pubblica amministrazione, che si era rivolto al Garante per chiedere la de-indicizzazione di articoli sul web che riguardavano la sua vicenda, conclusasi quattro anni prima. Il Garante ha respinto la richiesta, ritenendo che la gravità dei reati e il breve periodo di tempo trascorso dalla sentenza possano giustificare l’interesse del pubblico ad accedere agli articoli; interesse del pubblico che, in questo caso, prevale su quello del condannato alla rimozione della notizia.

La crisi da sovraindebitamento: disciplina e prospettive

La L. n. 3/2012 (successivamente modificata dal D.L. n. 179/2012, convertito nella L. n. 221/2012) ha introdotto la disciplina di composizione delle crisi da sovraindebitamento, nota anche col nome di fallimento del consumatore. L’intento dichiarato è quello di fornire a soggetti non fallibili, gravati da plurimi debiti, uno strumento per sistemare e cancellare tutte le proprie pendenze, consentendo loro d’immettersi di nuovo nel mercato.

La disciplina riprende istituti tipici del diritto della crisi d’impresa, con norme che ricordano ora le disposizioni del concordato preventivo, ora del fallimento, ed introduce per la prima volta nel nostro ordinamento la figura dell’Organismo di Composizione della Crisi (O.C.C.), che sta muovendo i primi passi recentemente anche nella città di Prato. Questo organismo avrebbe il compito di affiancare, grazie all’apporto di professionisti esperti nella gestione di insolvenza e ristrutturazioni, il debitore lungo tutto l’arco della procedura.

Chi può accedere alla procedura, e quando?

La procedura è applicabile al c.d. debitore civile (soggetti non fallibili né assoggettabili a procedure concorsuali, come ad esempio piccoli imprenditori, imprenditori agricoli, ma anche start up innovative, associazioni e fondazioni) e al consumatore, sempre che non abbiano fatto ricorso a una procedura nei cinque anni precedenti.

Per sovraindebitamento la L. n. 3/2012 intende “la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente” (cfr. art. 6, secondo comma). Si tratta, dunque, di uno squilibrio finanziario che sia in grado di determinare uno stato d’insolvenza o di crisi, reversibile o irreversibile.

Quali sono le possibilità per superare la crisi?

Per comporre situazioni del genere la legge individua tre possibilità: l’accordo del debitore, il piano del consumatore (riservato solo a chi ha questa qualifica e la liquidazione del patrimonio.

L’accordo ha per oggetto la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti in base ad un piano che poi dovrà essere approvato dai creditori. Se la percentuale dei creditori favorevoli raggiunge il 60% e viene omologato dal Tribunale, l’accordo diventa vincolante per tutti i creditori. Si tratta di una procedura a controllo giudiziario e basata sull’apporto di organismi specializzati di sostegno (il già citato Organismo di Composizione della Crisi), che per alcuni versi ricorda il concordato preventivo.

Il piano del consumatore, riservato solo a chi è tale, e quindi ha assunto obbligazioni al di fuori dell’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, prescinde dall’approvazione dei creditori. Si tratta di un piano di ristrutturazione che dovrà essere omologato dal Tribunale previa valutazione sulla sua legittimità, fattibilità e convenienza. Una volta approvato dal giudice, il piano vincola tutti i creditori.

Se questi primi due strumenti non sono percorribili per vari motivi, l’alternativa è la liquidazione del patrimonio, una procedura simile al fallimento, con la formazione di uno stato passivo e un’attività di liquidazione formalizzata in un programma.

Particolarmente importante è la possibilità, conseguente alla liquidazione, di chiedere, entro un anno dalla chiusura della procedura, l’esdebitazione. Si tratta della liberazione dei debiti residui che dovessero residuare nei confronti dei creditori concorsuali e non soddisfatti, in grado dunque di consentire al debitore il fresh start, ossia la sua nuova immissione nel mercato libero da debiti. La legge richiede, però, dei requisiti, tra cui si menzionano l’aver cooperato allo svolgimento della procedura, il non aver beneficiato di altra esdebitazione negli otto anni precedenti alla domanda e il non aver compiuto atti in frode ai creditori nei cinque anni precedenti l’apertura della liquidazione.

I punti critici e gli sviluppi futuri

Da queste poche note s’intravede già la complessità dei percorsi per uscire dalla crisi. Ciò, unito alla tardività con cui è stato attuato il dettato legislativo, hanno trasformato uno strumento pensato per essere semplice e agevole per il consumatore in un mezzo farraginoso e costoso, tanto che le procedure ad oggi avviate sono veramente poche. Una persona fisica gravata da molti debiti, magari proprietaria di un solo immobile, non può sacrificare i propri mezzi – già inidonei a soddisfare integralmente i creditori – per sostenere i costi di una procedura che coinvolge inevitabilmente numerosi professionisti. Tanto varrebbe attendere gli esiti di un’eventuale esecuzione forzata.

Inoltre, vi sono criticità relative al ridotto campo di ammissibilità dell’esdebitazione, all’impossibilità di falcidiare il credito i.v.a. dello Stato e all’alta percentuale dei creditori necessari per l’approvazione dell’accordo.

Di queste ultime considerazioni ha tenuto conto la Commissione Rordorf, nell’elaborazione di un disegno di riforma organico delle procedure concorsuali, approvato come disegno di legge delega dal Consiglio dei Ministri nel marzo 2016. Tra le altre cose, si prevede un allargamento della platea di soggetti ammessi all’esdebitazione, prevedendo che anche le persone giuridiche possano beneficiarvi; inoltre, sono previste esclusioni e possibilità di conversione delle procedure in quella liquidatoria in caso di frode o inadempimento; viene poi riconosciuta l’iniziativa per l’apertura delle procedure liquidatorie, pure in presenza di procedure esecutive individuali, anche ai creditori e al pubblico ministero, se l’insolvenza riguarda un soggetto imprenditore.

Difficile che il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento delle crisi d’impresa possa vedere la luce entro la fine della corrente legislatura. Anche perché uno stop potrebbe essere utile per varare una disciplina già in linea con le nuove prospettive europee. Infatti, sarà discussa entro la fine del corrente mese dai competenti organi dell’Unione Europea la proposta di direttiva, presentata lo scorso novembre, avente ad oggetto standard minimi da osservare negli Stati membri in materia di ristrutturazione e seconda possibilità (c.d. fresh start) per gli imprenditori in crisi. Si tratta di un provvedimento di cui il legislatore delegato italiano dovrà inevitabilmente tenere conto.

Due recenti decisioni in materia di locazione

Il contratto di locazione, disciplinato dagli artt. 1571 e ss. del Cod. civ., e dalle Leggi n. 392/1978, n. 431/1998 e n. 158/2008, è indubbiamente uno dei tipi più diffusi nella realtà economica di tutti i giorni. Sebbene le disposizioni normative che disciplinano la locazione siano molte, la casistica che ne scaturisce è talmente varia che l’interpretazione della giurisprudenza diviene uno strumento inevitabile e prezioso per risolvere molte problematiche concrete. Di seguito proponiamo due sentenze che affermano concetti da tenere in grande considerazione nello svolgimento di un rapporto locatizio.

Il contratto verbale e il canone di locazione in nero

Tra le obbligazioni principali del conduttore, l’art. 1587 Cod. civ. individua quella di pagare il corrispettivo al locatore nei termini convenuti. Al tempo stesso è previsto un requisito di forma scritta nelle locazioni che hanno ad oggetto immobili ad uso abitativo, ai sensi dell’art. 1 della L. n. 431/1998. Che succede quando il canone non è interamente previsto all’interno del contratto, perché magari al locatore è sembrato fiscalmente conveniente intascarne una parte in nero, o perché – sempre in nero – il canone è stato aumentato in seguito? Questa eccedenza potrebbe essere oggetto di un contratto verbale; anche la locazione di una porzione di un immobile, però, potrebbe essere pattuita verbalmente – e dunque con un canone separato – sempre per ragioni fiscali.

Con sentenza n. 20395/2016, la Sezione III della Corte di Cassazione si è pronunciata sul punto, stabilendo che il conduttore non è tenuto a pagare la parte di canone che eccede quello pattuito nel contratto scritto, e dunque oggetto di un mero accordo verbale.

La causa era nata con l’intimazione di sfratto per morosità in relazione ad una parte di compendio immobiliare che il locatore riteneva aver concesso al conduttore in seguito ad accordo verbale. Il medesimo accordo verbale prevedeva il canone di locazione che l’inquilino aveva iniziato a non pagare. Quest’ultimo, opponendosi allo sfratto, aveva chiesto la restituzione dei canoni pagati fino al momento dell’avvenuta morosità in forza di quel contratto verbale. In altre parole, una parte di denaro era stata pagata in nero fino a una certa data; da quando l’inquilino ha smesso di pagare il locatore ha avanzato pretese sulla base di un presunto accordo verbale.

La Corte di Cassazione ha confermato le sentenze di primo grado e di appello che hanno dato torto al padrone di casa, obbligandolo alla restituzione di quanto percepito al di fuori degli accordi contenuti nel contratto scritto.

Per dovere di completezza, bisogna sottolineare che il principio stabilito dalla Corte aveva già trovato accoglimento nella Legge n. 208/2015 (Legge di Stabilità 2016), la quale con l’art. 1, comma 59, aveva sostituito l’art. 13 della L. n. 431/1998, stabilendo la nullità di ogni patto volto a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato. In questi casi, la Legge accorda al conduttore la possibilità di agire in giudizio nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell’immobile, al fine di chiedere la restituzione delle somme versate in eccedenza.

La normativa non poteva essere, ratione temporis, presa in considerazione dalla Corte di Cassazione nella sentenza sopra citata, posto che il ricorso era del 2013. Appare evidente, però, la direzione intrapresa da legislatore e giurisprudenza nei confronti di accordi volti ad eludere la normativa fiscale.

I vizi dell’immobile e la riduzione del canone

Altro punto fermo in giurisprudenza riguarda i rimedi per il conduttore che lamenti vizi della cosa tali da diminuirne in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito. La normativa codicistica prevede, all’art. 1578 Cod. civ., che l’inquilino possa chiedere la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo.

Il Tribunale di Milano, Sez. XIII, con sentenza n. 12427/2016 ha ribadito come la possibilità di riduzione del canone di locazione debba essere oggetto di domanda giudiziale e non costituisca un diritto del conduttore di fronte a gravi vizi che diminuiscano il godimento del bene locato, anche se derivano da fatti del locatore. La questione riguardava una società che aveva proposto opposizione a decreto ingiuntivo nei confronti del locatore, ritenendo parte dei canoni non dovuti a causa di infiltrazioni d’acqua e allagamenti che rendevano inservibile parte del capannone detenuto in locazione.

Il Tribunale, sposando una tesi consolidata in giurisprudenza (si veda ad es. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 19897/2016), ha affermato che l’auto-riduzione del canone di locazione costituisce sempre atto arbitrario e illegittimo, che rende il conduttore inadempiente, anche nel caso in cui egli abbia tenuto il proprio comportamento per applicare l’art. 1578 Cod. civ. Infatti, la riduzione totale o parziale del pagamento del canone è legittima solo quando i vizi della cosa locata comportino un impedimento totale al godimento del bene locato da parte del conduttore, e quindi sia venuta integralmente meno la controprestazione del locatore.

Del resto, l’esplicita previsione contenuta nell’art. 1578 Cod. civ., che dà la possibilità al conduttore di agire in giudizio, trova la propria ratio nel fatto che solo il giudice viene ritenuto in grado di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti, disponendo nel caso la riduzione del canone.

In ossequio a tali principi, il Tribunale di Milano – pur avendo rinvenuto nell’immobile locato gravi vizi – ha riconosciuto il diritto del conduttore a non pagare i canoni solo per il periodo successivo all’introduzione dell’opposizione a decreto ingiuntivo, e non per quello precedente.

La responsabilità dell’amministratore di s.p.a. privo di deleghe

La sentenza n. 17441/2016 della Sezione I della Corte di Cassazione ci offre l’occasione per esaminare alcuni punti di una materia ampia e complessa, come quella della responsabilità degli amministratori di società per azioni. Si tratta di una disciplina che, in seguito al profondo riassetto operato con la riforma di diritto societario del 2003, manifesta la sua costante attualità, soprattutto nell’ambito della crisi d’impresa.

La vicenda di cui si è occupata la Corte

Una crisi è anche alla base della decisione della Cassazione che qui ci occupa, posto che l’azione nei confronti degli amministratori era stata promossa dal curatore della s.p.a. fallita – legittimato ad agire ai sensi dell’art. 146 L. fall. – che era riuscito ad ottenere sia in primo grado che in appello la condanna di tutti i componenti del Consiglio, fossero essi muniti di deleghe o meno.

La Corte ribalta parzialmente le conclusioni dei giudici di merito, stabilendo che, ai sensi dell’art. 2392 Cod. civ., gli amministratori privi di deleghe – anche detti non operativi – non sono sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di quest’ultimi grazie alla conoscenza di elementi in grado di provocare il loro intervento, in base alla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze.

La Cassazione ritiene che nei precedenti gradi di giudizio i giudici non abbiano tenuto in considerazione l’intervenuta riforma di diritto societario, operata con il D. Lgs. n. 6/2003. In precedenza, infatti, l’art. 2392 Cod. civ. disciplinava la responsabilità degli amministratori basandosi sulla diligenza del mandatario, configurando tale responsabilità anche in caso di omessa vigilanza sull’operato degli altri consiglieri. La giurisprudenza ante-2003 aveva espressamente escluso che la sussistenza di deleghe potesse attenuare la responsabilità degli amministratori non operativi per i danni cagionati alla società, venendo a configurare una vera e propria responsabilità oggettiva.

Il quadro normativo attuale

Nella versione vigente, la norma cardine della responsabilità degli amministratori di s.p.a. – l’art. 2392 Cod. civ. – parla di una responsabilità solidale di tutti gli amministratori che, in violazione dei propri doveri, abbiano causato un danno alla società. La solidarietà viene meno nel caso in cui si sia alla presenza di attribuzioni del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite a uno o più amministratori. Questi rispondono sempre in ragione della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze.

Il secondo comma dell’art. 2392 Cod. civ. stabilisce che “In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. La disposizione richiamata, e cioè l’art. 2381, terzo comma, Cod. civ., a sua volta stabilisce che “Il consiglio di amministrazione […] Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; […] valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”.

La Corte di Cassazione, nella sentenza qui esaminata, va anche oltre, ritenendo implicito il richiamo, nell’art. 2392 Cod civ., all’art. 2381, sesto comma, Cod. civ., in base al quale “Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”.

Dal combinato disposto di queste norme si comprende come, nelle s.p.a., la conoscenza di fatti pregiudizievoli debba passare dalle informazioni date al consiglio che, di conseguenza, ha il dovere di richiederle. Ne consegue che – come riconosciuto da dottrina e giurisprudenza – la responsabilità degli amministratori senza deleghe non discende da una condotta di omessa vigilanza, ma dalla violazione del dovere di agire informati, sulla base di notizie che debbono essere date loro o che comunque essi possono richiedere. Siamo passati da un sistema incentrato sulla colpa in vigilando – che finiva per scadere nella responsabilità oggettiva – ad uno basato sulla semplice colpa.

Non potendo ritenere che l’amministratore non operativo sia un semplice destinatario passivo di informazioni, la sua responsabilità sarà configurabile nel caso in cui egli sia a conoscenza di fatti (c.d. segnali di allarme) tali da giustificare un intervento per ottenere gli elementi necessari ad agire informato.

La natura della responsabilità e le conclusioni della Corte

A queste osservazioni si deve aggiungere quella – preliminare – svolta dalla Cassazione nella sentenza che ci occupa, relativa alla natura contrattuale della responsabilità degli amministratori. Da ciò consegue il corollario in materia di onere della prova, per cui spetta al curatore (o alla società in generale) dedurre la violazione dei doveri da parte degli amministratori e provare sia il danno arrecato che il nesso di causalità tra condotta e danno. Viceversa, è onere dell’amministratore dare prova della non imputabilità a sé del fatto dannoso, dimostrando l’osservanza dei doveri e l’adempimento degli obblighi a lui imposti.

La responsabilità che sorge in violazione del dovere di agire informati e il riparto dell’onere della prova così come sopra esposto, hanno portato la Cassazione a rinviare la causa alla Corte d’Appello. Infatti, occorreva “che la Corte d’appello indagasse sulla base degli addebiti loro rivolti dal fallimento” in base al riparto dell’onere della prova, quali fossero le informazioni” che gli amministratori privi di deleghe “avevano effettivamente a disposizione e se vi fossero elementi tali da richiamare la loro attenzione, tenuto conto delle informazioni loro fornite e della apparente plausibilità di esse, sì da verificare se la condotta di inerzia, che la Corte d’appello risulta aver loro addossato nella sua mera oggettività, fosse invece connotata da colpa”.

(Ancora) sull’annosa questione della colpa medica

Abbiamo affrontato in occasione della nostra prima newsletter il tema del diritto alla salute e della responsabilità civile del medico, con particolare attenzione al dibattito che l’art. 3 della Legge Balduzzi (L. n. 182/2012) ha sollevato in merito alla natura contrattuale o extra-contrattuale della responsabilità del medico.

L’interpretazione che avevamo individuato come prevalente ha trovato successiva conferma in varie pronunce della giurisprudenza di merito (ad es., Trib. Palermo 22.08.2016: “la responsabilità del medico ospedaliero, anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 189/2012, è da qualificarsi come contrattuale).

Nell’attesa dell’approvazione del disegno di Legge Gelli – Bianco, di cui rendiamo conto anche questo mese tra le news in breve, destinato a rivoluzionare il sistema di responsabilità del medico, ne approfittiamo per chiarire alcuni nodi centrali di questo argomento.

L’importanza della perizia

Rappresenta certamente un tema particolarmente sentito quello della responsabilità del medico nell’adempimento delle obbligazioni inerenti la sua attività professionale.

Riteniamo che sia ormai un dato di comune esperienza in ciascun fruitore di prestazioni mediche che il tipo di diligenza ed attenzione necessaria abbia una natura non generica (del cd. buon padre di famiglia), bensì qualificata in conformità alla natura dell’attività esercitata: tale forma di diligenza qualificata è la perizia, intesa come adeguata conoscenza ed applicazione dell’insieme delle regole tecniche proprie dell’arte medica, sia sotto il profilo generale del rispetto delle regole comune a tutti i rami della professione, sia di quelli più propriamente attinenti al settore specifico di riferimento, per individuare i quali si dovrà tenere conto dei continui aggiornamenti della scienza medica.

Incorrerà perciò in colpa medica l’esercente una professione sanitaria che non rispetti, oltre ai generali doveri di diligenza e prudenza, i doveri di perizia nei termini sopra tratteggiati. In sostanza, ed in estrema sintesi, è richiesto al professionista medico uno standard di diligenza superiore al normale e tale pretesa, stabilita anche dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, è certamente conforme al comune sentire.

Se i principi sopra accennati appaiono chiari, certamente è questione non semplice l’accertamento in concreto dell’esistenza di una responsabilità professionale del medico o del personale sanitario in genere.

Il medico risponde del risultato?

Si tratta di una domanda centrale per il paziente, la cui aspettativa deve tuttavia essere bilanciata con le difficoltà connaturate all’attività in esame.

Aldilà della questione circa la natura di tale responsabilità contrattuale o extra-contrattuale affrontata nella newsletter del giugno scorso (e ricordiamo come anche tale questione abbia importanti ed interessanti riflessi pratici), è certamente rilevante e di persistente attualità la questione circa la collocazione delle obbligazioni dell’esercente l’arte medica fra le obbligazioni di mezzo o di risultato, dovendosi intendere con le prime quelle in cui il debitore è tenuto a svolgere una determinata attività, senza garantire che il creditore consegua il risultato sperato; le seconde, invece, sono quelle in cui il debitore (in questo caso il medico) è tenuto a realizzare proprio un determinato risultato quale esito della propria attività.

Tale diversità è densa di conseguenze sotto il regime probatorio, incombendo nel primo caso (obbligazione di mezzi) al paziente la prova dell’inesatto adempimento per il quale si terrà conto della natura dell’attività esercitata ex art. 1176, secondo comma, Cod. civ., mentre per le obbligazioni di risultato spetterà al paziente un onere probatorio ben inferiore (limitato al titolo dell’obbligazione).

Affermare la natura di obbligazione di risultato per una prestazione quale quella medica, che richiede in genere la risoluzione di problemi di particolare complessità rappresenta un dato non semplice.

La dicotomia in esame è stata oggetto negli ultimi anni di una profonda revisione interpretativa, avendo inizialmente la giurisprudenza posto in particolare l’accento sulla distinzione fra interventi di facile ed interventi di difficile esecuzione, operando nel primo caso una presunzione di negligente adempimento da parte del sanitario per l’ipotesi di un aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie. In caso invece d’interventi complessi, ricadeva sul paziente l’onere della prova circa l’esistenza di un errore terapeutico.

La posizione della giurisprudenza

L’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13553/2001 ha tuttavia rappresentato un primo superamento di tale orientamento, con lo spostamento dell’onere della prova in capo al sanitario debitore della prestazione medica circa l’avvenuta corretta estinzione dell’obbligazione. Conseguenza di tale affermazione è che grava sul medico l’onere della prova che l’evento dannoso si è verificato a causa di un fattore estraneo privo di collegamento causale con l’intervento sanitario.

Successive pronunce hanno via via affermato che l’ente sanitario ed il medico che ne fa parte sono contrattualmente impegnati al risultato che sia conseguibile in base ai criteri di normale applicazione della scienza medica sino a giungere ad affermare (cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 8826/2007) che si ha mancato raggiungimento del risultato anche in caso di mancato miglioramento delle condizioni del paziente e non soltanto in caso di suo peggioramento. Si tratta della maturazione di un orientamento che rende certamente più difficile la posizione del medico strutturato, scoraggiandone l’iniziativa personale, ma rende sicuramente più tutelato il paziente.

Particolarmente significativa in proposito è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 577/2008, che ha sancito il definitivo tramonto della distinzione fra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, avendo la Corte ritenuto che “in ogni obbligazioni si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile”.

La successiva giurisprudenza di merito non si è tuttavia adagiata su tale indicazione, rimanendo il tema motivo di acceso confronto. Siamo forse lontani da un punto di arrivo definitivo, ammesso che di definitività si possa parlare nel mondo dell’interpretazione giuridica.

In conclusione?

È tuttavia certo che di un punto di arrivo si sente l’esigenza in un settore così delicato: summum ius summa iniuria dicevano i latini. Certamente la sentenza da ultimo richiamata è particolarmente significativa.

In ogni caso, la tematica della responsabilità del medico non si esaurisce certamente con queste brevi ed incomplete note, essendo numerosi gli ulteriori aspetti da valutare: da quale debba essere la valutazione del nesso di causalità a quale sia il contenuto dell’onere di allegazione dei fatti per il paziente, e cioè se il soggetto danneggiato debba spingersi a precisare tutti i particolari dell’intervento e ad individuare i concreti profili di colpa. Vi è inoltre da considerare l’importante tematica del consenso informato, sulla quale ci riserviamo di tornare.

È evidente che l’attuale stato dell’evoluzione giurisprudenziale risente pesantemente dei mutati rapporti in ambito sociale, nei quali l’ambito della relazione appare spesso compresso dall’estrema intensificazione dei processi d’individualizzazione dei diritti. Appare pericolosa una società che, soggetta ad un costante impoverimento, interpreti i conflitti utilizzando come base esclusiva di valutazione i pur sacrosanti diritti individuali senza un’adeguata considerazione dei doveri di solidarietà sociale e di responsabilità nell’utilizzo di forme di protezione collettiva (qual è il sistema sanitario). Siamo consapevoli che tale riflessione coinvolge diversi livelli di responsabilità nel sistema, a monte rispetto al verificarsi dei fenomeni di malasanità e comporti la necessità di un ripensamento – da un lato – delle forme di protezione sociale e – dall’altro – del rispetto da parte del cittadino fruitore dei servizi, dei doveri di partecipazione al buon funzionamento del sistema (fermo rimanendo che la tutela sanitaria è diritto della persona). Sono tuttavia riflessioni che l’operatore del diritto non può certamente ignorare, essendo l’interpretazione della norma vivente sensibile alla realtà sociale del momento.