La tutela dei risparmiatori nelle crisi bancarie

Dal novembre 2015 i risparmiatori italiani hanno assistito a numerosi interventi da parte del Governo finalizzati a salvaguardare alcuni istituti bancari. Se la ragione di queste operazioni, attuate con la regia dello Stato, è stata quella di garantire la tenuta del sistema creditizio nel suo complesso (assieme al denaro dei correntisti), è anche vero che non si è trattato di iniziative indolori, soprattutto per i piccoli investitori.

Tre crisi, tre diverse soluzioni.

Negli ultimi anni, le crisi che hanno coinvolto il sistema bancario sono essenzialmente tre: quella delle c.d. quattro banche (Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Chieti e Banca delle Marche); quella del Monte dei Paschi di Siena; quella delle banche venete: Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Tre situazioni in cui il Governo ha operato in tre modi diversi per salvaguardare la tenuta del sistema creditizio.

Nel caso delle quattro banche, il Governo, con il D.L. n. 183/2015, ha previsto la loro risoluzione. Ciò sulla base del D.Lgs. n. 180/2015, che aveva a sua volta recepito la “Direttiva europea sulla risoluzione delle crisi bancarie – BRRD”, assurta alle cronache per l’introduzione del meccanismo del bail in. L’assoggettamento a risoluzione ha comportato la cessione delle parti buone dell’azienda bancaria a nuovi istituti appositamente costituiti (ad esempio la Nuova Banca Etruria), in gergo detti good bank, tecnicamente degli enti ponte. A questo punto, la vecchia banca è stata assoggettata alla liquidazione coatta amministrativa, mentre gli enti ponte sono stati prima acquistati e poi incorporati in altri istituti di credito (Banca Popolare dell’Emilia Romagna per Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara, UBI Banca per le altre tre). Ciò sia detto semplificando al massimo, posto che la procedura ha previsto anche l’intervento del fondo di risoluzione interbancario per la sottoscrizione del capitale degli enti ponte, nonché la creazione di una società veicolo per la cessione dei crediti a sofferenza.

Tutto bene? Non proprio. La soluzione di queste crisi, nell’applicazione della nuova normativa europea, ha comportato l’azzeramento delle azioni e delle obbligazioni subordinate (il c.d. burden sharing). Titoli che, se pur astrattamente sono detenuti da chi è sottoposto al rischio d’impresa, nel concreto erano stati collocati dalle medesime banche presso numerosi risparmiatori, intenzionati a compiere investimenti sicuri. Proprio a tal proposito, con la messa in liquidazione, era anche stata prevista la possibilità di rimborso (tramite un fondo appositamente costituito) dell’80% del valore ai risparmiatori e una procedura arbitrale apposita presso l’Autorità nazionale anticorruzione.

Per il Monte dei Paschi di Siena il Governo ha operato una soluzione diversa, pur prevedendo anche in questo caso il burden sharing, dunque l’azzeramento a copertura delle perdite di azioni e obbligazioni subordinate. Anche in questo caso, poi, è stata prevista una forma di compensazione per i risparmiatori vittima di vendita fraudolenta dei titoli. Con l’adozione del D.L. n. 237/2016 è stata infatti aperta la strada alla ricapitalizzazione precauzionale della Banca; una misura prevista dalla direttiva europea BBRD in caso di banche solvibili e che richiede l’approvazione della Commissione europea. La ricapitalizzazione è stata sostenuta economicamente dallo Stato, che è quindi entrato a far parte del capitale della Banca in quota maggioritaria fino al 2021, con possibilità di uscirne prima in caso di rilancio più rapido dell’istituto. A ciò si è affiancato un ingente piano di cessione dei crediti deteriorati della Banca.

Ancora diverso è il caso delle due banche venete: Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. In questo caso, il D.L. n. 99/2017 ha aperto la procedura di liquidazione coatta amministrativa dei due istituti, prevedendo la cessione dell’azienda bancaria a Banca Intesa Sanpaolo. In questo caso non ci sono stati enti ponte, né burden sharing, ma solo il perfezionamento della cessione mediante un atto negoziale, basato su un’accurata delimitazione normativa del suo perimetro, che esclude dalla cessione determinate passività, debiti o controversie. Un’operazione che non finisce di generare dubbi e perplessità.

Le quattro banche e la responsabilità degli enti ponte (e delle incorporanti)

Nel caso delle quattro banche risolte nel novembre 2015, i detentori di titoli che non avessero accettato la proposta di rimborso parziale, o non avessero fatto ricorso allo speciale arbitrato istituito presso l’A.N.A.C. possono ricorrere all’autorità giudiziaria per chiedere il risarcimento del danno.

A tal proposito, si segnalano alcune recenti pronunce che hanno attribuito agli enti ponte (ad es. la Nuova Banca Etruria) – ma il ragionamento è applicabile anche agli istituti che poi li hanno incorporati, come UBI Banca – la legittimazione passiva per le azioni risarcitorie in materia di violazione delle disposizioni sull’attività di prestazione di servizi d’investimento. Si tratta del Tribunale di Ferrara, con le ordinanze del 29.10.2017 e del 31.10.2017, e del Tribunale di Milano, con la sentenza dell’8.11.2017.

In particolare, nell’ordinanza del Tribunale di Ferrara del 31.10.2017, che ha avuto un certo risalto anche sulla stampa generalista, si può leggere: “si ponga attenzione al fatto che parte attrice non agisce per ottenere il rimborso delle azioni, pacificamente escluso dalla normativa di fine 2015, ma per chiedere il risarcimento del danno derivato da un inadempimento della banca ad obblighi informativi. Nessuna preclusione per coloro che facciano valere diritti relativi all’adempimento a contratti di investimento stipulati dalla vecchia banca a prescindere dal fatto che siano o meno esauriti”.

Si tratta di un’affermazione molto importante per chi ritiene di essere stato raggirato al momento dell’acquisto delle azioni delle banche liquidate, che hanno perso il loro valore in seguito al burden sharing. Infatti, poter chiedere i danni a UBI Banca o a Banca Popolare dell’Emilia Romagna consente di veder soddisfatte le proprie pretese, piuttosto che procedere ad insinuarsi al passivo delle procedure di liquidazione coatta amministrativa cui sono state sottoposte le bad bank.

Senza scendere nel dettaglio delle motivazioni delle decisioni dei Tribunali (che escludono l’applicabilità dell’art. 2560 c.c. per contrasto con l’art. 58 T.u.b., e dunque il regime ordinario della cessione d’azienda), vale la pena segnalare che la dottrina più attenta ritiene tali argomentazioni giuridicamente discutibili. Non resta dunque che vedere se il filone giurisprudenziale si consoliderà e se queste decisioni saranno confermate anche da altre corti territoriali.

Le banche venete: Intesa Sanpaolo sì, no, forse

Come abbiamo visto, la situazione delle due banche venete è diversa, anche se non cambia la problematica che i risparmiatori si trovano ad affrontare: nei confronti di chi agire per chiedere i danni da perdita di valore delle azioni? Le norme previste nel D.L. n. 99/2017, che ha aperto la liquidazione delle due banche, sembrano chiare nell’escludere che siano state cedute ad Intesa sia le controversie relative a fatti anteriori alla cessione ma iniziate successivamente, sia i debiti per i risarcimenti agli azionisti raggirati (cfr. art. 3).

Tuttavia questa norma, accusata da più parti di presentare profili d’illegittimità costituzionale, ha dovuto fare i conti con alcune interpretazioni dei Tribunali che ne hanno ridefinito la portata applicativa. Il primo a operare in tal senso è stato il G.u.p. del Tribunale di Roma, con ordinanza del 28.01.2018, che ha autorizzato la citazione, in qualità di responsabile civile, di Banca Intesa Sanpaolo nel processo penale a carico degli ex vertici di Veneto Banca. A fondamento di questa decisione, il Giudice ha praticamente disapplicato la lett. b) dell’art. 3 del D.L. n. 99/2017 (che esonera da responsabilità la cessionaria) ritenendo di doverla interpretare in modo conforme a costituzione (e cioè ritenendo che essa valga solo nei rapporti interni tra banche cedenti ed Intesa, non anche nei confronti dei terzi estranei alla cessione).

Sempre in ambito penale, di avviso opposto è stato il G.i.p. del Tribunale di Vicenza nel processo nei confronti degli ex amministratori di Banca Popolare di Vicenza. In questo caso, con ordinanza dell’8.02.2018, la chiamata di Intesa Sanpaolo quale responsabile civile non è stata ammessa.

Dal punto di vista civile, invece, il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 14.03.2018 ha sposato la tesi del G.u.p. di Roma, ritenendo che Intesa Sanpaolo possa essere chiamata a rispondere nell’azione risarcitoria intrapresa nei confronti di Veneto Banca. Le argomentazioni sono le medesime: le deroghe introdotte con la normativa della liquidazione coatta amministrativa non valgono per i creditori delle banche poste in liquidazione.

Si tratta di una situazione in forte divenire, con molte problematiche giuridiche da risolvere. Anche la dottrina più autorevole, che ha fin da subito rilevato la potenziale tensione con la legittimità costituzionale del D.L. n. 99/2017, si sta interrogando sulle concrete possibilità rimesse ai risparmiatori raggirati. Questi si muovono tra una procedura di liquidazione, che molto probabilmente non porterà loro alcun vantaggio, e la possibilità di agire nei confronti di Intesa Sanpaolo. La soluzione non è dietro l’angolo, nell’attesa che altri tribunali si pronuncino e che – chissà – la questione non arrivi davvero davanti alla Corte costituzionale.

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Le nuove aste giudiziarie telematiche

Dall’11 aprile 2018 è iniziata una vera e propria rivoluzione nell’ambito delle aste giudiziarie. Si tratta di una novità che coinvolge sia gli addetti ai lavori che i semplici cittadini, potenziali acquirenti di immobili da procedure esecutive o fallimentari. Con la piena funzionalità del Portale delle Vendite Pubbliche (http://pvp.giustizia.it), che già dal 19 febbraio 2018 raccoglieva obbligatoriamente (pena estinzione della procedura) la pubblicità degli immobili, è iniziata l’era delle aste telematiche.

Istituito dal D.L. n. 83/2015, il portale è gestito dal Ministero della Giustizia e costituisce uno strumento fondamentale per lo svolgimento delle vendite giudiziarie. Come detto, su di esso devono essere necessariamente pubblicati gli annunci di tutti gli immobili in vendita sul territorio nazionale, liberamente consultabili da chiunque. Non solo: il portale è anche importante strumento per monitorare in chiave statistica l’andamento delle vendite da parte del Ministero, ma soprattutto è l’unico mezzo attraverso il quale l’interessato all’immobile può richiedere al custode di visitarlo (come previsto dal riformato art. 560 c.p.c.). Presente anche la possibilità di iscriversi ad una newsletter, nonché un’area riservata agli addetti ai lavori, come ad esempio i custodi ed i professionisti delegati alla vendita, ma anche i creditori.

A ciò si aggiunga il dettato del riformato art. 569 c.p.c., che dispone che la vendita si svolga con modalità telematiche. Ciò significa che le fasi della presentazione dell’offerta, l’identificazione dell’offerente, il controllo sui requisiti normativi previsti e l’eventuale gara dovranno svolgersi on-line. Le vendite saranno gestite da soggetti privati, i cui siti internet saranno collegati al Portale delle Vendite Pubbliche, che si occuperanno di raccogliere le offerte (tramite modulo on-line predisposto dal Ministero ed inviato via pec) e curare l’eventuale gara. In sostanza, per le vendite giudiziarie si passerà da un sistema molto simile ad e-bay, o siti similari.

Circa l’impatto che la nuova modalità può avere sulle procedure esecutive in corso, il D.L. n. 59/2016 ha previsto che la vendita telematica “si applica alle vendite forzate di beni immobili disposte dal giudice dell’esecuzione o dal professionista delegato dopo il novantesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto” che accerta la piena funzionalità del Portale delle Vendite Pubbliche. In altre parole, i tentativi di vendita per i quali non risulti già pubblicato, alla data del 10 aprile 2018, il relativo avviso ex art. 490 c.p.c., dovranno essere telematici.

La modalità di vendita, che può essere sincrona o asincrona, cioè con o senza la contemporanea connessione di Giudice e delegato alla vendita al portale, prevede la possibilità di effettuare offerte entro un numero di giorni prefissato, con un prolungamento (entro un certo limite) dei termini in caso di offerte presentate negli ultimi 15 minuti.

Nella nostra zona, i Tribunali di Firenze e Pistoia hanno già adottato ordinanze in tal senso, mentre il Tribunale di Prato, con circolare dell’11 aprile 2018, ha deciso di applicare la deroga prevista dall’art. 569 c.p.c., che consente di procedere con le modalità tradizionali quando la vendita telematica “sia pregiudizievole per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura”. Per queste ragioni, a Prato la modalità telematica riguarderà solo le vendite delegate con ordinanza successiva al 10 aprile 2018, salvo provvedimenti diversi adottati dal Giudice nel caso specifico.

A fronte di alcuni indubbi vantaggi (possibilità di partecipare ad aste per immobili lontani, riduzione dei rischi di turbativa), i primi commenti alla nuova disciplina già evidenziano alcuni timori, soprattutto in materia di riservatezza e di sicurezza informatica dei sistemi di coloro che saranno chiamati a gestire le vendite. A ciò si aggiunge un’impressione di minor funzionalità del Portale rispetto ad altri siti specializzati in annunci di vendite giudiziarie. Questi ultimi, comunque, continueranno a raccogliere la pubblicità, essendo complementari al sistema ministeriale.

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Il decalogo della Cassazione sul danno non patrimoniale

La materia del risarcimento del danno non patrimoniale, in particolare del danno alla salute, è quotidianamente affrontata dai tribunali italiani, ed è andata incontro negli anni a numerosi interventi di razionalizzazione ad opera della Corte della Cassazione. Abbiamo già affrontato questa tematica, dando risalto agli orientamenti più recenti che prendono le distanze dal rigido sistema delle tabelle elaborate da alcuni tribunali.

La Sezione III della Corte di Cassazione è recentemente tornata sulla questione del danno non patrimoniale con l’ordinanza n. 7513/2018. Stavolta la Corte elabora un vero e proprio decalogo, elencando i punti cui i Giudici si devono attenere nel valutare la sussistenza del diritto al risarcimento del danno e la sua quantificazione.

La vicenda

Il caso da cui muove la Cassazione riguarda un sinistro stradale, a seguito del quale il danneggiato aveva ottenuto, in primo grado, la condanna dell’assicurazione al risarcimento del danno non patrimoniale. Tale danno era stato quantificato con riferimento alle note tabelle milanesi, cui veniva aggiunta una maggiorazione del 25 % giustificata sulla sussistenza, nel danneggiato, anche di un grave e permanente pregiudizio dinamico-relazionale.

Tuttavia, la Corte d’Appello aveva riformato la sentenza del tribunale, ritenendo non dovuta la maggiorazione del 25 % (perché il pregiudizio sarebbe stato già incluso nel danno biologico). Il danneggiato ha così proposto ricorso per Cassazione, ritenendo nulla e contraddittoria la sentenza d’appello, che non avrebbe motivato la sua decisione, soprattutto per quanto riguarda il discostamento dalla perizia del medico legale (che aveva riconosciuto la personalizzazione del danno sulla base dell’insorgenza di un pregiudizio dinamico-relazionale).

La Corte di Cassazione ha respinto questo motivo di ricorso, e nel farlo ha ripercorso i principi fondamentali ormai affermatisi in giurisprudenza sul risarcimento del danno non patrimoniale, finendo per elencare ben dieci punti che i giudici di merito dovranno rispettare nelle future decisioni.

Il decalogo

La Cassazione muove innanzitutto dal fare chiarezza su cosa si debba intendere per “danno dinamico-relazionale”. Ripercorrendo l’evoluzione della normativa che ha introdotto tale termine, con riferimento anche agli approdi della medicina legale, la Corte giunge ad affermare che “Non, dunque, che il danno alla salute “comprenda” pregiudizi dinamico-relazionali dovrà dirsi; ma piuttosto che il danno alla salute è un danno “dinamico-relazionale”. Se non avesse conseguenze “dinamico-relazionali”, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile.” Ne consegue che questo danno non è affatto diverso dal danno biologico. La personalizzazione, dunque, si fonda su circostanze specifiche del caso concreto, che il danneggiato dovrà allegare in giudizio.

Queste circostanze specifiche possono giustificare un aumento percentuale della stima del danno biologico non perché abbiano inciso su aspetti dinamico-relazionali, ma perché si tratta di conseguenze straordinarie, non rientranti nel pregiudizio comune alla generalità delle persone della medesima età che abbiano subito pregiudizi dello stesso grado.

Ed ecco che la Sezione III, articolandoli in dieci punti, riassume i principi di diritto in materia di danno non patrimoniale, partendo dall’assunto che di danno risarcibile esistono solo due categorie: quello patrimoniale e quello non patrimoniale; quest’ultimo, poi, costituisce una categoria giuridicamente unitaria, nel senso che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ad i medesimi criteri risarcitori.

Ne consegue che il giudice, nel liquidare questo tipo di danno, deve – da un lato – prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell’illecito e – dall’altro – evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici. Da ciò l’importanza dell’istruttoria, dove si dovrà accertare in concreto l’esistenza dei pregiudizi (accertando in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito), senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio.

La Corte precisa che costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione di una ulteriore somma a titolo danno dinamico-relazionale. Ciò in quanto la misura standard del risarcimento prevista dalla legge, o dalle tabelle utilizzate nei tribunali, può essere aumentata “solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari“. Invece, le conseguenze dannose che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire, non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

Da ciò l’assenza di duplicazione risarcitoria in presenza dell’attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento “dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)”. Si tratta, in altre parole, del c.d. danno morale, che viene tenuto distinto, anche in recenti interventi normativi, da quello dinamico-relazionale.

La Cassazione conclude, infine, che anche il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati (diversi dal diritto alla salute), va liquidato allo stesso modo; tenendo conto, cioè, tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (il c.d. danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso.

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