La sentenza n. 17441/2016 della Sezione I della Corte di Cassazione ci offre l’occasione per esaminare alcuni punti di una materia ampia e complessa, come quella della responsabilità degli amministratori di società per azioni. Si tratta di una disciplina che, in seguito al profondo riassetto operato con la riforma di diritto societario del 2003, manifesta la sua costante attualità, soprattutto nell’ambito della crisi d’impresa.
La vicenda di cui si è occupata la Corte
Una crisi è anche alla base della decisione della Cassazione che qui ci occupa, posto che l’azione nei confronti degli amministratori era stata promossa dal curatore della s.p.a. fallita – legittimato ad agire ai sensi dell’art. 146 L. fall. – che era riuscito ad ottenere sia in primo grado che in appello la condanna di tutti i componenti del Consiglio, fossero essi muniti di deleghe o meno.
La Corte ribalta parzialmente le conclusioni dei giudici di merito, stabilendo che, ai sensi dell’art. 2392 Cod. civ., gli amministratori privi di deleghe – anche detti non operativi – non sono sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di quest’ultimi grazie alla conoscenza di elementi in grado di provocare il loro intervento, in base alla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze.
La Cassazione ritiene che nei precedenti gradi di giudizio i giudici non abbiano tenuto in considerazione l’intervenuta riforma di diritto societario, operata con il D. Lgs. n. 6/2003. In precedenza, infatti, l’art. 2392 Cod. civ. disciplinava la responsabilità degli amministratori basandosi sulla diligenza del mandatario, configurando tale responsabilità anche in caso di omessa vigilanza sull’operato degli altri consiglieri. La giurisprudenza ante-2003 aveva espressamente escluso che la sussistenza di deleghe potesse attenuare la responsabilità degli amministratori non operativi per i danni cagionati alla società, venendo a configurare una vera e propria responsabilità oggettiva.
Il quadro normativo attuale
Nella versione vigente, la norma cardine della responsabilità degli amministratori di s.p.a. – l’art. 2392 Cod. civ. – parla di una responsabilità solidale di tutti gli amministratori che, in violazione dei propri doveri, abbiano causato un danno alla società. La solidarietà viene meno nel caso in cui si sia alla presenza di attribuzioni del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite a uno o più amministratori. Questi rispondono sempre in ragione della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze.
Il secondo comma dell’art. 2392 Cod. civ. stabilisce che “In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. La disposizione richiamata, e cioè l’art. 2381, terzo comma, Cod. civ., a sua volta stabilisce che “Il consiglio di amministrazione […] Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; […] valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”.
La Corte di Cassazione, nella sentenza qui esaminata, va anche oltre, ritenendo implicito il richiamo, nell’art. 2392 Cod civ., all’art. 2381, sesto comma, Cod. civ., in base al quale “Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”.
Dal combinato disposto di queste norme si comprende come, nelle s.p.a., la conoscenza di fatti pregiudizievoli debba passare dalle informazioni date al consiglio che, di conseguenza, ha il dovere di richiederle. Ne consegue che – come riconosciuto da dottrina e giurisprudenza – la responsabilità degli amministratori senza deleghe non discende da una condotta di omessa vigilanza, ma dalla violazione del dovere di agire informati, sulla base di notizie che debbono essere date loro o che comunque essi possono richiedere. Siamo passati da un sistema incentrato sulla colpa in vigilando – che finiva per scadere nella responsabilità oggettiva – ad uno basato sulla semplice colpa.
Non potendo ritenere che l’amministratore non operativo sia un semplice destinatario passivo di informazioni, la sua responsabilità sarà configurabile nel caso in cui egli sia a conoscenza di fatti (c.d. segnali di allarme) tali da giustificare un intervento per ottenere gli elementi necessari ad agire informato.
La natura della responsabilità e le conclusioni della Corte
A queste osservazioni si deve aggiungere quella – preliminare – svolta dalla Cassazione nella sentenza che ci occupa, relativa alla natura contrattuale della responsabilità degli amministratori. Da ciò consegue il corollario in materia di onere della prova, per cui spetta al curatore (o alla società in generale) dedurre la violazione dei doveri da parte degli amministratori e provare sia il danno arrecato che il nesso di causalità tra condotta e danno. Viceversa, è onere dell’amministratore dare prova della non imputabilità a sé del fatto dannoso, dimostrando l’osservanza dei doveri e l’adempimento degli obblighi a lui imposti.
La responsabilità che sorge in violazione del dovere di agire informati e il riparto dell’onere della prova così come sopra esposto, hanno portato la Cassazione a rinviare la causa alla Corte d’Appello. Infatti, occorreva “che la Corte d’appello indagasse sulla base degli addebiti loro rivolti dal fallimento” in base al riparto dell’onere della prova, “quali fossero le informazioni” che gli amministratori privi di deleghe “avevano effettivamente a disposizione e se vi fossero elementi tali da richiamare la loro attenzione, tenuto conto delle informazioni loro fornite e della apparente plausibilità di esse, sì da verificare se la condotta di inerzia, che la Corte d’appello risulta aver loro addossato nella sua mera oggettività, fosse invece connotata da colpa”.