Se la puzza di fritto è considerata (anche) reato

Si tratta di una sentenza che ha avuto un certo eco, la n. 14467/2017 della Sezione III penale della Corte di Cassazione, perché ha sanzionato penalmente le emissioni di puzza di fritto che un condomino era stato accusato di provocare quotidianamente nel palazzo in cui abita.

Si tratterebbe, secondo la Corte, di una fattispecie da inquadrare nella contravvenzione di cui all’art. 674 del Codice penale, che punisce con l’arresto fino ad un mese o con l’ammenda fino ad € 206 “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”. Il produrre odori molesti in condominio sarebbe quindi “getto pericoloso di cose”, per riprendere la rubrica dell’articolo appena citato, e costituirebbe una vera e propria “molestia olfattiva”, secondo la Cassazione.

Si tratta di una pronuncia che non arriva isolata. Se è vero che probabilmente la puzza di fritto non era mai entrata nelle aule giudiziarie, la medesima Sezione III della Cassazione penale era già giunta alla medesima conclusione per le esalazioni di una pizzeria, con la sentenza n. 45225/2016.

Indubbiamente, inquadrare all’interno di un reato le immissioni sgradevoli di odori in condominio può avere un certo effetto deterrente. Questo è tanto più vero quanto ciò che interessa a chi abita a stretto contatto con la puzza è indubbiamente il farla cessare. La possibilità di ricorrere alla denuncia penale sarà, dunque, un’arma importante per i condomini esasperati, da utilizzare per rafforzare le proprie richieste di cessazione di certe condotte.

I rimedi civilistici e il recente intervento delle Sezioni Unite

Se poi, nel caso concreto, le esalazioni non integrassero un reato, soccorrono comunque i rimedi previsti dal diritto civile, finalizzati all’inibitoria dei comportamenti dannosi e ad ottenere un adeguato risarcimento del danno.

La norma di partenza, come per le immissioni sonore, è l’art. 844 c.c., il quale afferma: “Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.

Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.

In ambito civilistico, dunque, assume un ruolo centrale il criterio della normale tollerabilità. Solo rumori o esalazioni che superano tale soglia sono tali da rendere possibile il ricorso a strumenti di tutela da parte di chi li subisce. Questo criterio, più che finalizzato a indirizzare le condotte dei privati, serve a guidare la valutazione del giudice nella risoluzione di controversie tra vicini. La formula è volutamente generica e rimanda alla valutazione delle circostanze del caso concreto, come la condizione dei luoghi, le attività normalmente svolte in un determinato contesto produttivo, il sistema di vita e le correnti abitudini della popolazione del luogo. Si è poi affermato in giurisprudenza che la normale tollerabilità, pur essendo un criterio oggettivo, non è mai assoluta e va rapportata alla sensibilità di un uomo medio e alla specifica situazione ambientale (c.d. criterio comparativo).

Se gli odori sono intollerabili, i vicini o – come capita più spesso – i condomini, potranno agire in giudizio. La richiesta principale sarà la cessazione dei comportamenti che provocano le immissioni (c.d. inibitoria), accompagnata dal risarcimento del danno (anche non patrimoniale), nel caso in cui esse abbiano avuto un impatto negativo sulle proprie condizioni di vita (si pensi, ad esempio, ai rumori che non fanno dormire la notte o ad odori che pregiudicano la piena libertà nelle abitudini quotidiane). Legittimato ad agire in giudizio è il proprietario dell’immobile che subisce le immissioni altrui, ma in virtù dell’interpretazione dell’art. 1585 c.c. la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere l’azione anche al conduttore.

Molto spesso, data l’urgenza di far cessare esalazioni o rumori intollerabili, si ricorre in giudizio ai sensi dell’art. 700 c.p.c., al fine di ottenere un provvedimento inibitorio d’urgenza, con tempi ridotti rispetto ad una causa ordinaria. Utile, data la natura del provvedimento di condanna a non fare dell’inibitoria, la possibilità di richiedere l’applicazione delle misure coercitive di cui all’art. 614-bis c.p.c. Non potendo materialmente impedire un comportamento da parte del condannato, infatti, l’ordinamento prevede che in questi casi il giudice possa fissare la somma di denaro dovuta al ricorrente per ogni giorno di ritardo nella cessazione delle condotte, o per ogni singola nuova violazione dell’ordine d’inibitoria. In questo modo, la condanna alla cessazione delle esalazioni sarà anche titolo esecutivo per riscuotere le somme dovute in caso di suo mancato rispetto.

Naturalmente, per ottenere una condanna in giudizio occorre fornire la prova della sussistenza d’immissioni che superano la normale tollerabilità. Fondamentale, in materia di odori, il ricorso alla testimonianza; in altri casi, come quello dei rumori, si ricorre spesso all’utilizzo di una consulenza tecnica, che valuti il superamento della normale tollerabilità.

Sul versante del risarcimento del danno conseguente ad immissioni, si segnala la recente presa di posizione delle Sezioni Unite (n. 2611/2017), secondo cui il danno non patrimoniale da immissioni può essere risarcito anche nel caso in cui non sia stata documentata la sussistenza di un danno biologico. Infatti, se sono stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane (diritti costituzionalmente garantiti, e tutelati anche dall’art. 8 della C.E.D.U.), la prova del relativo pregiudizio può essere fornita anche attraverso presunzioni.