Il danno nelle azioni di responsabilità verso gli organi sociali

Con la recente sentenza n. 38/2017, la Sezione I della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sui criteri di quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità esperite nei confronti degli organi sociali. Questa pronuncia ci fornisce lo spunto per compiere una breve analisi delle criticità e degli interventi giurisprudenziali che si sono registrati negli ultimi anni sul punto, con particolare riferimento alle azioni promosse dalle curatele.

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore

Delle molteplici azioni che possono essere esperite nei confronti degli amministratori e sindaci di una società, un particolare rilievo pratico assume quella esercitata dal curatore fallimentare, ai sensi dell’art. 146 L.f. Questa disposizione consente all’organo della procedura di far valere in giudizio le azioni che spetterebbero alla società e ad i creditori sociali in una volta sola. Tralasciando il dibattito sulla natura di questa azione (se nell’interesse della massa, cumulativa, scindibile o meno), non si può fare a meno di notare come le richieste risarcitorie nei confronti degli organi societari siano, nella maggior parte dei casi, mosse proprio dai curatori, una volta che la società è divenuta insolvente ed è stata dichiarata fallita. Ciò perché molte volte le maggioranze assembleari necessarie ad agire in giudizio coincidono con quelle del gruppo di controllo, di cui gli amministratori sono espressione. I creditori sociali, poi, talvolta non sono in possesso di dati fondamentali ad intraprendere simili azioni.

Le azioni di responsabilità, nei confronti di qualunque organo e all’interno di qualsiasi tipo di società, sono azioni risarcitorie, dunque finalizzate ad ottenere una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno. Non possono sussistere simili azioni senza un danno, la cui prova spetta sempre a chi agisce in giudizio (indipendentemente dalla natura – contrattuale o extracontrattuale – che viene riconosciuta alle diverse tipologie di azione). Nel caso dell’art. 146 L.f., dunque, spetterà al curatore non solo provare l’esistenza di un danno, ma anche quantificarlo.

L’ambito applicativo della liquidazione in via equitativa

Con riferimento a quest’ultimo aspetto (la quantificazione del danno), in molti casi essa può essere particolarmente complessa, perché se anche si riesce a provare l’esistenza di conseguenze patrimoniali sfavorevoli per la società, causate da determinate condotte degli organi di gestione o di vigilanza, non sempre è possibile determinarne il preciso ammontare. In questi casi, allora purché sia stata provata l’esistenza del pregiudizio, è possibile per il giudice ricorrere alla liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c.

Come precisato anche da due recenti sentenze (Cass. civ., Sez. III, sentt. n. 127 e 6218/2016) il potere del giudice di procedere a liquidazione equitativa può essere esercitato a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile sia stata dimostrata, e nel solo caso di obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova della sua quantificazione. Perciò, nel nostro caso, è compito della curatela dimostrare ogni elemento di fatto di cui possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficoltà, per far sì che la valutazione equitativa colmi soltanto le lacune riscontrate insuperabili nella precisa quantificazione del danno.

La corretta quantificazione del danno risarcibile assume un ruolo centrale nelle azioni di responsabilità verso gli organi sociali: è quella la somma di cui le singole persone fisiche, che rivestono le cariche, saranno chiamate a rispondere, nonché manifestazione del rischio per le quali le medesime si assicurano.

Le Sezioni Unite del 2015 sul criterio del deficit fallimentare

Le molteplici difficoltà che si riscontrano in controversie caratterizzate da un alto grado di complessità contabile, unitamente al ricorso al criterio equitativo, hanno portato spesso ad un’eccessiva semplificazione nella quantificazione delle richieste economiche. Le curatele hanno finito così per richiedere ad amministratori e sindaci (ma anche ai singoli soci, nel caso di s.r.l.) somme molto elevate, pari alla differenza tra attivo e passivo accertato in sede fallimentare. Il ricorso al deficit fallimentare, cui spesso si è fatto utilizzo in presenza di violazioni ampie e generalizzate o di mancanza o alterazione della contabilità, è un criterio che rischia di essere errato sia per eccesso (si pensi alla rettifica del valore dei cespiti in ottica fallimentare) sia per difetto (non tutti i creditori potrebbero essersi insinuati al passivo).

Proprio al fine di porre rimedio all’utilizzo distorto del criterio del deficit fallimentare per quantificare il danno, è intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 9100/2015.

Lo spunto deriva da due sentenze del 2011 (la n. 5876 e la n. 7606), le quali, in contrasto con la giurisprudenza che si era ormai delineata, avevano affermato che la totale mancanza di scritture contabili – come nel caso di contabilità sommaria e non intellegibile – di per sé giustifica la condanna dell’amministratore, in quanto la violazione di tale obbligo non consente, di fatto, alla curatela attrice di provare il nesso eziologico e, quindi, giustifica l’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore convenuto, che deve dimostrare che il dissesto non è riconducibile alla sua condotta.

Muovendo dal principio dell’onere della prova, le Sezioni Unite affermano che chi agisce in responsabilità deve provare il danno ed il nesso di causa tra la condotta che si assume tenuta dal danneggiante (che andrà almeno allegata in giudizio) ed il danno medesimo.

A questo punto le Sezioni Unite si pongono un interrogativo cruciale: esiste un inadempimento degli organi sociali tale da provocare un danno corrispondente all’intero deficit fallimentare? La risposta è che un danno di tale portata potrebbe essere determinato soltanto da quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da incidere sull’intero patrimonio sociale o, comunque, da quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza. Ecco allora che, nel contesto di un’attività d’impresa, connotata per sua natura dal rischio di possibili perdite, la pretesa di far coincidere il danno risarcibile con l’intero deficit fallimentare a fronte di singole condotte addebitate ad amministratori e sindaci perde ogni fondamento.

Ciò soprattutto se si considera l’inadempimento che tradizionalmente è stato ritenuto causa di un danno così ampio, cioè la mancanza o irregolarità delle scritture contabili. Le Sezioni Unite affermano che le scritture contabili registrano accadimenti economici, non li determinano. Per questo, l’unica conseguenza economicamente plausibile, derivante da omissioni in contabilità, appare essere il maggior onere nell’espletamento dei compiti del curatore (dunque un maggior costo per la procedura), non certo l’insolvenza della società.

La Corte si spinge oltre: l’intero deficit fallimentare non può essere addebitato agli organi della società neppure perché la mancanza dei bilanci impedisce al curatore di quantificare il danno sofferto, giustificando – in base al c.d. principio di vicinanza della prova – lo spostamento dell’onere della prova di danno e nesso di causa in capo agli organi sociali. Il principio di vicinanza della prova è applicabile, infatti, solo quando l’attore ha allegato un inadempimento astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si pretende il risarcimento. Ed ecco che, se è vero che la mancanza (o l’irregolarità) delle scritture contabili non appare legata da alcun nesso di causalità, neppure potenziale, con il danno costituito dal deficit fallimentare, allora non può giustificarsi lo spostamento dell’onere della prova a carico degli organi della società convenuti in giudizio.

In caso contrario, il risarcimento del danno assumerebbe natura sanzionatoria, volto a colpire condotte di amministratori e sindaci contrarie alla Legge ma non causative di un danno alla società o ai creditori.

La conclusione del ragionamento delle Sezioni Unite del 2015 ritorna sulla quantificazione equitativa del danno. In caso di difficoltà nello specificare economicamente il danno subìto, la curatela può invocare l’art. 1226 c.c. Ecco allora che, solo a fini di quantificazione, il giudice potrà tenere conto del deficit fallimentare, motivando in modo puntuale quali siano state le ragioni che non hanno consentito l’accertamento degli specifici effetti dannosi causalmente riconducibili alla condotta degli organi sociali, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto che rendono il ricorso al criterio del deficit logicamente plausibile.

Insomma: provata la sussistenza del danno e il nesso di causa con l’inadempimento allegato, il criterio equitativo può tenere in considerazione il deficit fallimentare con tutte le cautele del caso. La valutazione equitativa interviene solo in questi casi e non per determinare il nesso di causa, come, di fatto, era avvenuto nelle sentenze del 2011.

La giurisprudenza successiva, tra conferme e oscillazioni

In giurisprudenza, a fronte di pronunce che già avevano raggiunto le medesime conclusioni delle Sezioni Unite (cfr. Trib. Milano, sent. 22.01.2015 e Trib. Prato, 14.09.2012) vi sono Tribunali che si sono sostanzialmente allineati alla Suprema Corte, come Trib. Ferrara, sent. 1.03.2016 e anche Trib. Pistoia, sent. 19.01.2016, che ha bandito criteri di individuazione e liquidazione del danno che prescindano dal rigoroso accertamento di quali siano le conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e ritenute sussistenti.

Curiosa, invece, C. App. Catania, sent. 30.06.2015 che, nel mentre dichiara di uniformarsi ai principi di cui alla sentenza n. 9100/2015, ritiene che le omissioni contabili e la tipologia di crediti ammessi al passivo (verso erario ed enti previdenziali) siano circostanze gravi precise e concordanti idonee a ritenere provato il nesso causale tra i comportamenti addebitati agli amministratori ed il danno lamentato. Risulta, a detta della Corte d’Appello, così giustificata la richiesta di risarcimento correlata alla differenza tra attivo e passivo fallimentare. In altre parole, si utilizzano gli elementi che le Sezioni Unite vorrebbero a base del ragionamento equitativo per la quantificazione del danno, come presunzioni di nesso causale tra danno e condotte addebitate agli amministratori. Proprio le stesse condotte, peraltro, che le Sezioni Unite avevano giudicato inidonee a cagionare un pregiudizio pari al deficit fallimentare.

In questo quadro s’inserisce da ultimo Cass. civ., Sez. I, sent. n. 38/2017, che riprende ed applica correttamente il principio di diritto enunciato nel 2015 dalle Sezioni Unite. Anche in questo caso la Corte ha cassato la sentenza d’appello che aveva condannato amministratori e sindaci al risarcimento di una somma pari al deficit fallimentare, ritenendoli responsabili di aver smarrito i libri sociali. La Cassazione, richiamando l’autorevole precedente, ribadisce come il fatto che il danno possa essere liquidato equitativamente non implica l’applicazione di un criterio di meccanica commisurazione di esso alla differenza tra attività e passività sociali.

La corretta applicazione dei principi di diritto fin qui esaminati, se ha il pregio di fare chiarezza sulla prova del danno e del nesso di causalità, renderà certamente più complesse le azioni esperite dalle curatele. L’esigenza di attribuire agli organi sociali danni economici solo effettivamente provocati talvolta si può scontrare con una contabilità alterata ad arte, che rende impossibile una quantificazione del danno, soprattutto se si pensa ad azioni che iniziano ad anni di distanza dalle condotte incriminate.

Ad ogni modo, tutto dipenderà dal tipo di approccio, più o meno rigoroso (o, se si preferisce, più o meno filo-curatela) che i giudici di merito sceglieranno. Bisognerà vedere, cioè, se i Tribunali si accontenteranno di una motivazione “di stile” delle ragioni per le quali l’attore non sia riuscito ad assolvere l’onere della prova, o se invece ne esigeranno una effettiva. Questa dovrà dare conto di un attento e scrupoloso tentativo di ricostruzione del danno risarcibile, e delle ragioni per le quali il ricorso al criterio del deficit fallimentare si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.