La rivoluzione della Cassazione sull’assegno divorzile

Grande scalpore ha suscitato la scorsa primavera la sentenza n. 11504 del 10.05.2017 della Sezione I della Corte di Cassazione, che ha rivoluzionato l’orientamento in materia di riconoscimento dell’assegno divorzile a vantaggio del coniuge più debole. A distanza di qualche mese cerchiamo dunque di capire quale sia il principio affermato da questa pronuncia, che applicazione ne hanno fatto nel frattempo i Tribunali e quali sono gli scenari che si prospettano.

Mantenimento, alimenti, assegno divorzile: un po’ di chiarezza

Una prima e necessaria premessa è quella terminologica: l’istituto su cui è intervenuta la Corte di Cassazione nel maggio scorso è l’assegno divorzile, previsto dall’art. 5, sesto comma, della L. n. 898/1970 (c.d. Legge sul divorzio). Questa disposizione recita: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. È bene tenere fin da subito in considerazione la lettera di questa norma perché, come avremo modo di vedere, è proprio a partire da essa che la Corte di Cassazione ricostruisce l’istituto e – in una certa misura – ne rivoluziona l’applicazione.

Diverso dall’assegno divorzile è l’assegno di mantenimento. Questo è previsto in caso di separazione personale dei coniugi dall’art. 156 Cod. civ., che stabilisce: “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. E subito ai due commi successivi si preoccupa di affermare che “L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato” e che “Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti”.

Istituto diverso è poi l’obbligazione degli alimenti, anche se nel linguaggio comune spesso si utilizza questo termine per fare riferimento ai contributi che uno dei coniugi (o meglio, ex coniugi) versa nei confronti dell’altro. Previsti dall’art. 433 e ss. Cod. civ., gli alimenti non devono essere prestati solo dall’ex coniuge. Si tratta, in realtà, di un’obbligazione di natura assistenziale dovuta per legge alla persona che si trova in stato di bisogno economico e basata su presupposti diversi da quelli degli altri due istituti richiamati. Infatti, l’art. 438 Cod. civ. stabilisce che “Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento.

Essi devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale”.

La Cassazione e l’assegno divorzile: le due valutazioni da compiere

La sentenza n. 11504/2017 è dunque intervenuta sull’assegno divorzile, partendo dal presupposto per cui una volta sciolto il vincolo matrimoniale con il divorzio i coniugi debbano essere considerati persone singole, sia per quanto riguarda i loro rapporti economico-patrimoniali, sia con riferimento al reciproco dovere di assistenza morale e materiale (rimangono validi, invece, gli obblighi derivanti dalla potestà genitoriale).

A partire dal dettato dell’art. 5 della Legge sul divorzio, sopra richiamato, la Cassazione ritiene che in ordine all’attribuzione del diritto all’assegno divorzile si debbano effettuare due valutazioni, la seconda consequenziale alla prima: la spettanza o meno dell’assegno (l’an) e la sua quantificazione (il quantum).

Proprio in relazione alla quantificazione, la Cassazione afferma che essa deve essere fatta non in ragione del rapporto matrimoniale, ormai estinto anche nella sua dimensione economica, ma in considerazione di esso (“tenuto conto” dice l’art. 5 della Legge sul divorzio).

Per quanto riguarda la spettanza dell’assegno, la Corte ritiene opportuno sottolineare come esso sia un istituto di solidarietà economica, che non deve procurare un ingiusto guadagno al coniuge beneficiario. Ecco perché, nel rispetto del dettato normativo, occorre prestare particolare attenzione all’eventuale presenza di mezzi adeguati dell’ex coniuge richiedente o alle effettive possibilità di procurarseli; in altre parole alla sua eventuale indipendenza o autosufficienza economica. Fattori che, se esistenti, sono in grado di escludere in radice l’an del diritto all’assegno. Naturalmente, l’onere di provare che sussistono i requisiti per la concessione dell’assegno divorzile è a carico dell’ex coniuge che lo richiede.

Fin qui nessun problema, nel senso che la Corte si è limitata a riprendere il dettato normativo, ponendo particolare attenzione su quali siano le valutazioni che il giudice deve compiere per riconoscere o meno questa prestazione al richiedente. Il punto centrale, però, è che la terminologia del legislatore richiede di essere interpretata, e su questo punto la Cassazione del 2017 ha detto la sua in modo molto diverso rispetto a prima.

L’adeguatezza o meno dei mezzi dagli anni ’90 ad oggi

Infatti, stabilire quali siano i parametri per ritenere che i mezzi di chi richiede l’assegno siano adeguati o meno, e se questi abbia o no la possibilità di procurarseli, non è un’operazione immediata, data la necessità di capire quale sia il parametro di adeguatezza.

Fino alla pronuncia che qui ci interessa, la Cassazione aveva adottato un criterio affermatosi con forza in seguito alle sentenze a Sezioni Unite nn. 11490 e 11492/1990, e cioè quello per cui il termine di paragone per stabilire se i mezzi dell’ex coniuge fossero adeguati o meno era il “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”.

È proprio questo criterio che è stato oggetto di ribaltamento lo scorso mese di maggio, non ritenendo la Corte che esso fosse ancora attuale, per una serie di ragioni.

Le ragioni del cambio di prospettiva

In primo luogo – afferma la Cassazione – se il matrimonio si scioglie con la sentenza di divorzio, il voler parametrare il diritto o meno all’assegno divorzile al tenore di vita tenuto durante il rapporto finisce proprio per ripristinarlo, anche se limitatamente all’ambito economico ed in prospettiva futura. Il diritto all’assegno, infatti, deve essere riconosciuto tenendo in considerazione l’ex coniuge come persona singola; le condizioni economiche del matrimonio (ormai preesistente) possono essere, infatti, tenute in considerazione solo al momento della quantificazione dell’importo dell’assegno, non dunque per stabilire se il richiedente ne ha diritto o no.

La Cassazione, infatti, ritiene che l’applicazione del criterio interpretativo del tenore di vita in costanza di matrimonio abbia portato ad una evidente commistione delle due fasi valutative (l’an e il quantum), che invece devono essere distinte ed autonomamente disciplinate.

In secondo luogo, l’orientamento che si era formato dal 1990 in poi aveva avuto l’obiettivo di contemperare la nuova concezione patrimonialistica del matrimonio con l’esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dall’esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, sorti in epoche molto anteriori alla riforma del diritto di famiglia. L’esigenza di un orientamento che non rompesse con la precedente tradizione, però, si era molto attenuata nel corso degli anni, tanto che la Corte ritiene che nel 2017 si possa parlare di matrimonio come atto di libertà e di auto-responsabilità, oltre a luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita. In altri termini, un legame che – in quanto libero e fondato su affetti – è anche possibile sciogliere quando le condizioni per la comunione di vita non ci sono più.

Queste considerazioni portano ad una conseguenza fondamentale: “L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile […] non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente – assistenziale dell’assegno divorzile.” Secondo il ragionamento della Corte, le uniche condizioni economiche che si devono tenere in considerazione quando si deve stabilire se riconoscere o meno il diritto all’assegno sono quelle del soggetto che lo richiede, senza effettuare paragoni tra le diverse situazioni degli ex coniugi.

Il nuovo parametro di riferimento e gli indici individuati dalla Corte

Se così stanno le cose, si comprende bene perché la Cassazione sostituisca il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio con il criterio dell’indipendenza economica (o meno) dell’ex coniuge richiedente: “un parametro di riferimento siffatto – cui rapportare il giudizio sull’ “adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla “possibilità-impossibilità per ragioni oggettive” dello stesso di procurarseli – vada individuato nel raggiungimento dell’“indipendenza economica” del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.

Si tratta, del resto, di un corollario del principio di auto-responsabilità, che governa il matrimonio e che “vale certamente anche per l’istituto del divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi – irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no – delle relative conseguenze anche economiche”.

In altre parole, la Cassazione ha affermato che solo seguendo il criterio dell’indipendenza economica è possibile compiere una corretta valutazione in ordine alla spettanza o meno dell’assegno divorzile. Un eventuale giudizio comparativo tra le condizioni del singolo e quelle che aveva in costanza di matrimonio sarà giustificato soltanto nel momento in cui si debba quantificare l’ammontare dell’assegno di cui si è già riconosciuto il diritto all’erogazione.

Per stabilire quando uno degli ex coniugi possa essere ritenuto economicamente indipendente, la Corte di Cassazione nella sent. n. 11504/2017 individua una serie di indici di valutazione, tra cui si può menzionare il possesso di redditi o di beni immobili, la capacità lavorativa in relazione allo stato di salute e all’età, la stabile disponibilità di una casa di abitazione. Spetterà a chi chiede l’assegno dare prova di non avere mezzi adeguati e di non poterseli procurare per ragioni oggettive, seguendo gli stessi indici ricostruiti dalla Corte, che a loro volta sono costitutivi del parametro dell’indipendenza economica. La prova dovrà essere fornita in maniera specifica, anche mediante presunzioni (soprattutto per quanto riguarda la capacità lavorativa) “fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative”.

Si tratta di un notevole cambio di prospettiva, che però è del tutto in linea con la normativa vigente, se è vero che l’art. 5 della Legge sul divorzio non parla mai, neppure indirettamente, del tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio come criterio applicativo dell’assegno divorzile.

Prime reazioni in giurisprudenza e prospettive future

La novità e la forza del ribaltamento di prospettiva operato dalla Cassazione sono tanto più evidenti se solo si pensa al fatto che il principio di diritto dovrà essere applicato anche a tutti i processi già pendenti al momento della pronuncia della Corte.

La giurisprudenza di legittimità si è immediatamente assestata sul nuovo principio affermato dalla Sezione I, facendone larga applicazione nelle pronunce immediatamente successive a quella fin qui esaminata. Da ultime si possono ricordare le due ordinanze della Sezione VI-1, nn. 20525 e 23602 del 2017. Entrambe affermano la necessità di un giudizio in due fasi (an e quantum dell’assegno), con onere della prova della non indipendenza economica a carico del richiedente. In particolare, nella seconda delle pronunce appena citate si può leggere “L’attribuzione dell’assegno divorzile non può essere giustificata dal divario tra le condizioni reddituali delle parti al momento del divorzio, né dal peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto alla situazione (o al tenore) di vita matrimoniale, a tal fine rilevando unicamente la mancanza della indipendenza o autosufficienza economica del richiedente. Nella fase del giudizio concernente l’an debeatur, invero, il richiedente, per il principio di autoresponsabilità economica, è tenuto, quale persona singola, a dimostrare la propria personale condizione di non indipendenza o autosufficienza economica. Alle condizioni reddituali dell’altro coniuge (unitamente agli altri elementi, di primario rilievo, indicati dalla norma di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970), pertanto, può aversi riguardo unicamente nella eventuale fase della quantificazione dell’assegno, alla quale è possibile accedere solo nel caso in cui la fase dell’an debeatur si sia conclusa positivamente per il coniuge richiedente l’attribuzione dell’emolumento.

Dopo nemmeno un mese dalla pronuncia della Cassazione, il Tribunale di Milano, Sezione IX Civile, con l’ordinanza del 22.05.2017, ha fatto applicazione dei nuovi principi, addirittura integrandoli con un ulteriore parametro. Il giudice milanese ha infatti ritenuto che “Un parametro (non esclusivo) di riferimento può essere rappresentato  dall’ammontare degli introiti che, secondo le leggi dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato (soglia che, ad oggi, è di euro 11.528,41 annui ossia circa euro 1000 mensili). Ulteriore parametro, per adattare “in concreto” il concetto di indipendenza, può anche  essere il reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita.”. Sulla scorta di queste valutazioni, che per riprendere la scansione in due fasi fatta propria della Cassazione, sono svolte al momento di verificare la spettanza (l’an) dell’assegno, il Tribunale ha negato il diritto all’assegno divorzile. In altre parole: un reddito di € 1.000,00 mensili è sufficiente a far ritenere una persona economicamente autosufficiente, dunque non avente diritto a mantenimento. In una successiva pronuncia (5.06.2017) sempre la Sezione IX del Tribunale di Milano, facendo applicazione del principio d’indipendenza economica, ha respinto la richiesta di assegno di divorzio di un ex coniuge possesso di redditi da lavoro dipendente, nonché dell’uso esclusivo della propria abitazione, anche se non di diretta proprietà.

Anche il Tribunale di Venezia, con decreto del 25.05.2017 ha subito abbandonato il parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio per determinare il diritto o meno del coniuge all’assegno divorzile “essendo piuttosto rilevanti atri indici, quali il “possesso” di redditi ed il patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e la “stabile disponibilità” di un’abitazione.

Un simile cambiamento di prospettiva non sarà indolore per molti beneficiari di assegno divorzile e, indirettamente, per gli Uffici giudiziari italiani, già particolarmente gravati di contenzioso. Non manca, infatti, chi, tra i primi commentatori della sentenza, ha evidenziato il rischio di un eccessivo ricorso a domande di revisione dell’assegno (possibilità prevista dall’art. 9 della Legge sul divorzio e recentemente intrapresa con successo dall’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi), incrementando così il contenzioso. Per questo c’è anche chi spera che il legislatore intervenga in modo da chiarire i confini applicativi dell’istituto dell’assegno divorzile, i cui beneficiari rischiano modifiche o addirittura revoche.

D’altro canto, non è mancato chi ha notato che la prassi dei tribunali italiani fosse già da tempo allineata sui principi da ultimo affermati dalla Cassazione, se è vero che, rilevazioni statistiche alla mano, risulta che solo nel 20% circa delle separazioni viene concesso un assegno al coniuge debole. Numeri che non aumentano in sede di divorzio.

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La vittoria dei residenti contro la movida

I centri storici delle principali città italiane sono tutti interessati dal fenomeno della c.d. movida. Intere zone sono ormai divenute punti di aggregazione per centinaia di avventori – più o meno giovani – che non solo si recano in ristoranti e pub ma vi stazionano fuori, affollando strade e vicoli e creando una serie di difficoltà a chi risiede nei dintorni. Una di queste difficoltà – forse la maggiore – è data dal rumore generato da un grande numero di persone; rumore che nei vicoli dei nostri centri storici si propaga e si amplifica, rendendo impossibile il riposo ai residenti.

Molte amministrazioni locali hanno cercato di far dialogare le associazioni di categoria con i residenti, in modo da stabilire regole di convivenza condivise, che possano tenere in considerazione gli interessi delle attività economiche di ristorazione unitamente al diritto al riposo delle persone. In molti casi, però, questi tentativi non hanno funzionato e si è giunti ad episodi di esasperazione, che hanno travalicato i limiti della semplice protesta. Per restare alla nostra realtà locale, fecero scalpore, un anno fa, le secchiate d’acqua lanciate da un residente sui tavoli affollati del locale sottostante la sua abitazione.

Se per il rumore che proviene dall’interno dei locali, o da musica installata dai gestori, vi possono essere idonei strumenti civili e penali, nei confronti delle persone che stazionano in strada fino a tarda ora, spesso dopo l’orario di chiusura degli esercizi (e che spesso nei locali nemmeno ci entrano), la questione è più complicata.

Il caso di Brescia

Due coniugi bresciani, però, non si sono dati per vinti e hanno trascinato in Tribunale il Comune, colpevole, a detta loro, di non fare nulla per impedire il caos nelle strade della movida. Caos che genera rumore e che aveva causato ai due quotidiani disagi e notti insonni (sfociati in stati d’ansia) tanto da arrivare al punto di dover cambiare gli infissi (e tentare anche di vendere casa). A dirla tutta, prima della causa civile i due coniugi avevano inviato numerose diffide al Comune di Brescia, affinché ponesse rimedio alla situazione del rumore generato dagli avventori dei locali della movida, ed avevano anche promosso ricorso al T.a.r., per far sì che il Comune adottasse un provvedimento di rimozione dell’inquinamento acustico. Provvedimento che poi era stato adottato, e che consisteva nella riduzione dell’orario di apertura dei locali (00:30 durante la settimana, 1:00 nel weekend), che tuttavia non aveva risolto il problema.

Da ciò la richiesta al Tribunale di far cessare le emissioni sonore e di ottenere il risarcimento del danno. Il fondamento della richiesta è l’art. 844 Cod. civ., di cui ci siamo già occupati a lungo nella scorsa newsletter, quando abbiamo parlato della puzza di fritto. In quel caso le emissioni erano odorose, qui sono sonore, ma il principio del superamento della normale tollerabilità rimane lo stesso, così come il rimedio dell’inibitoria. A ciò si aggiunga la richiesta di risarcimento del danno, che segue le regole della responsabilità civile ex art. 2043 Cod. civ., in questo caso per aver tenuto condotte di tipo omissivo.

Con la sentenza del 6.09.2017 la Sezione I Civile del Tribunale di Brescia dà ragione in pieno alla coppia di residenti del centro storico. E lo fa senza nemmeno disporre una consulenza tecnica in corso di causa, ma basandosi su rilievi fonometrici – eseguiti da tecnici comunali prima dell’instaurazione del giudizio – e su testimonianze di residenti e funzionari comunali.

Curiosa la preliminare definizione di movida, data dal Tribunale riprendendo la terminologia usata dallo stesso Comune di Brescia: “il fenomeno caratterizzato dal fatto che un elevato numero di persone (nell’ordine del migliaio in alcune occasioni) staziona l’esterno degli esercizi pubblici di cui sopra, occupando la pubblica via, consumando bevande per lo più alcoliche e trattenendosi in loco fino ad ore molto tarde (anche oltre le 2.00 di notte)”.

L’inibitoria delle immissioni di rumore ed il risarcimento del danno

Testimonianze di residenti, unitamente a numerose fotografie prodotte in giudizio e a rapporti che il servizio di volontari costituito dagli esercenti (“City Angels”) inviava al Comune, hanno portato il Giudice a ritenere che il rumore derivasse proprio dalla movida, costituita frequentemente anche da persone in stato di alterazione alcolica. A ciò si aggiungevano i rilievi fonometrici svolti dal tecnico comunale e acquisiti al processo, che avevano rilevato un significativo aumento della rumorosità (nell’ordine di 20 db) negli orari di apertura dei locali. Anche il T.a.r., cui i residenti si erano rivolti in precedenza, aveva accertato l’esistenza d’inquinamento acustico notturno, particolarmente dannoso per la salute delle persone.

Da tutto ciò è scaturito l’ordine al Comune di far cessare le condotte rumorose, che eccedono la normale tollerabilità, mediante l’adozione dei provvedimenti più idonei allo scopo.

Per quanto riguarda, invece, la richiesta di risarcimento del danno fatta dai coniugi al Comune, il Tribunale ritiene che l’Ente locale sia responsabile per non avere fatto niente al fine di prevenire gli schiamazzi provenienti dall’assembramento di persone lungo le strade della movida; schiamazzi che generano immissioni di rumore intollerabili per i residenti e dannose per la loro salute. In particolare il Tribunale ritiene che alcune misure adottate e documentate dal Comune, come l’aumento di pattuglie di Polizia Municipale, l’anticipazione degli orari di chiusura dei locali e della pulizia strade, siano del tutto insufficienti. Particolarmente rilevante in questo frangente è stata la testimonianza di un agente di Polizia Municipale, il quale ha affermato che il loro servizio era di presenza e che non avevano mai fatto allontanare le persone perché, a parte il rumore, non vi erano ragioni di sicurezza per farlo, oltre al fatto che gli uomini sarebbero stati insufficienti per una simile operazione. La condotta del Comune è stata ritenuta significativamente negligente anche perché il fenomeno della movida avviene in giorni della settimana definiti e ad orari sempre uguali, cosicché è tutto fuorché imprevedibile per l’amministrazione.

Indubbio poi il nesso di causa tra condotta negligente del Comune e danno, posto che è dimostrato dai rilievi fonometrici acquisiti che il rumore è causato dalla folla di persone che si raduna fuori dai locali.

Per quantificare il danno, il Tribunale fa applicazione del principio stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 2611/2017, già esaminata nella precedente news sulla puzza di fritto. Viene così liquidato in via equitativa un danno non patrimoniale derivante dalla lesione del normale svolgimento della vita quotidiana, che il Giudice bresciano liquida in € 50,00 a sera (per un totale di € 20.000,00 a coniuge). A ciò si aggiunge il riconosciuto danno patrimoniale per l’installazione dei nuovi infissi, ma non quello da deprezzamento dell’immobile.

Eventuali problemi applicativi

Questa pronuncia ha avuto immediata risonanza sui media nazionali, oltrepassando i confini della provincia bresciana, fornendo speranze a residenti esasperati di tutta Italia, che pare possano trovare nell’amministrazione comunale un bersaglio qualificato per le loro richieste (anche) risarcitorie.

Tuttavia la strada giudiziaria non è mai semplice, perché nessun caso è uguale all’altro. Basti pensare alla diversità di materiale probatorio che può presentarsi in casi analoghi. I coniugi bresciani avevano dalla loro numerosi testimoni, fotografie, rapporti e rilievi fonometrici effettuati da tecnici comunali; addirittura è andata a loro favore la testimonianza di un agente di Polizia Municipale. L’insieme di questi elementi ha permesso al Giudice di decidere senza disporre un’indagine fonometrica in corso di causa. Non sempre, però, queste situazioni si verificano. Basti pensare che alcuni Comuni italiani hanno tempi biblici per eseguire indagini tecniche su richiesta dei propri residenti, e che in mancanza di ciò l’interessato dovrà provvedere con un professionista di fiducia che non solo sarà più costoso, ma rischia anche di essere screditato in giudizio perché “di parte”.

A quelle che, in fondo, sono le difficoltà di qualunque giudizio si aggiunge una perplessità dettata dal contenuto dell’inibitoria cui il Tribunale di Brescia ha condannato il Comune. Se, infatti, possono sorgere pochi dubbi in merito alla condanna del Comune a risarcire il danno ai residenti, stabilire quali possano essere i provvedimenti più idonei a far cessare il rumore di persone che si ritrovano per la pubblica via non è cosa da poco.

Il giudice di Brescia, sia nella motivazione che nel dispositivo della sentenza, osserva che “la sola misura che si presenta efficace ai fini della risoluzione del problema è la predisposizione di un servizio di vigilanza, organizzato per tutte le sere dal giovedì alla domenica nei mesi da maggio a ottobre, con l’impiego di agenti comunali che si adoperino, entro la mezz’ora successiva alla scadenza dell’orario di chiusura degli esercizi commerciali autorizzati, a far disperdere ed allontanare dalla strada comunale Via Fratelli Bandiera le persone che stazionano lungo la stessa e che non se ne allontanano spontaneamente”.

Se in astratto questo pare l’unico rimedio immaginabile contro il rumore antropico, in concreto possiamo sostenere che il Comune abbia l’autorità di disporre sgomberi coatti di suolo pubblico? È sufficiente il danno causato ai residenti o sono necessarie anche ragioni di ordine pubblico? E, in ogni caso, l’ente locale ha la competenza per procedere o – come sostengono a Brescia – si ricade in materia attribuita alla Prefettura? Ciò che appare evidente, infatti, è la necessità di un non facile bilanciamento tra diritti costituzionali, tra cui quello alla salute dei residenti e quello di riunione degli avventori dei locali. Ad ogni modo, la sentenza è stata appellata dal Comune (che ritiene la situazione attuale migliorata e non più come descritta dal Tribunale), per cui avremo modo di seguire l’evoluzione della vicenda, bresciana e non solo. Non è detto, infatti, che altri residenti non si facciano avanti in altre parti d’Italia, sottoponendo il problema ai locali Tribunali.

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Il tasso d’interesse in caso di domanda giudiziale

Una recente pronuncia del Tribunale di Firenze (Sezione III Civile, in data 31.01.2017) ha puntato i riflettori su di una disposizione del Codice civile in materia d’interessi riformata nel 2014, nella cui applicazione non si erano riscontrate, finora, prese di posizione esplicite da parte della giurisprudenza. Ci si riferisce all’art. 1284 Cod. civ., in particolare ai commi quarto e quinto: “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale.”.

Si tratta di disposizioni inserite dal D.L. n. 132/2014 (convertito con modificazioni nella L. n. 162/2014) in un articolo del Codice che si preoccupa di disciplinare il tasso degli interessi legali (ed è infatti rubricato “Saggio degli interessi”), le quali si rivelano decisive in presenza di controversie che hanno ad oggetto il pagamento di somme di denaro. Cerchiamo di ricostruire la disciplina e di capire l’importanza della pronuncia del Tribunale di Firenze.

I diversi tipi di interessi

Quella agli interessi è un’obbligazione pecuniaria accessoria ad un’obbligazione principale a sua volta pecuniaria (in diritto per obbligazione pecuniaria s’intende quella in cui il debitore deve dare al creditore una somma di denaro). Gli interessi possono essere previsti dalla legge (dunque legali) o dalle parti (convenzionali) e si determinano sulla base di un tasso (o saggio), che può essere a sua volta previsto dalla legge o dall’accordo delle parti (pur nel rispetto delle soglie oltre le quali si parla di usura), applicato ad un capitale in relazione ad un periodo di tempo.

Tra le tipologie si annoverano gli interessi corrispettivi (dovuti per il godimento che il debitore ha del denaro del creditore, come nel mutuo), compensativi (dovuti per il mancato ottenimento da parte del creditore di una prestazione dovuta) e moratori (dovuti per il ritardo che il debitore fa del pagamento dovuto al debitore).

La riforma del 2014, andando ad incidere sull’art. 1284 Cod. civ., si occupa del tasso legale, dunque applicabile a qualsiasi tipologia di interesse nel caso in cui le parti non abbiano disposto diversamente.

Gli interessi di mora nelle transazioni commerciali e la riforma del 2014

Chiunque eserciti un’attività d’impresa è consapevole del fatto che ormai da quindici anni (dall’introduzione del D.Lgs. n. 231/2002) sulle somme di denaro sono dovuti gli interessi di mora (dunque per il ritardo nel pagamento) indipendentemente da formali richieste (c.d. messa in mora) al debitore. La novità del provvedimento appena citato, infatti, consiste nel prevedere che per le transazioni commerciali (tra imprese o tra imprese e pubblica amministrazione) gli interessi di mora decorrono automaticamente dal giorno successivo a quello previsto per la scadenza del pagamento (cfr. art. 4, che prevede anche criteri di decorrenza nel caso in cui un termine per il pagamento non fosse stato previsto dalle parti). L’art. 5 prevede poi che il tasso degli interessi di mora sia aggiornato con decreto ministeriale ogni sei mesi, ma sia comunque di sette punti percentuali superiore al “saggio d’interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione”.

Non occorre essere abili matematici per comprendere che il tasso legale degli interessi di mora nelle transazioni commerciali è ben più elevato del tasso d’interesse legale applicabile in via generale alle obbligazioni pecuniarie ai sensi dell’art. 1284 Cod. civ. Una maggiorazione di sette punti percentuali rispetto ad un tasso base produce un saggio elevato, anche considerando che il tasso d’interesse legale previsto per il 2017 dall’art. 1284, primo comma, Cod. civ., così come integrato dal decreto ministeriale annuale, è (solo) dello 0,1 %.

Da queste brevi note è già possibile comprendere il deciso cambiamento portato dal D.L. n. 132/2014 nell’introdurre gli ultimi due commi all’art. 1284 Cod. civ. Una disciplina particolarmente favorevole all’imprenditore, che prevede un tasso d’interesse elevato ed una decorrenza automatica degli interessi di mora – per impedire che continui ritardi nei pagamenti vadano a suo discapito – è stata estesa a qualsiasi rapporto abbia ad oggetto una somma di denaro. Unico requisito per la sua applicazione è che sia stata proposta domanda giudiziale (o di arbitrato). La ragione alla base di questa riforma sembra essere quella di volere che la durata dei processi non vada a discapito del creditore, nonché di rendere sconveniente ai debitori resistenze infondate in giudizio, poiché il tempo che pensano di guadagnare si ripresenterà alla fine del processo, sotto forma di una somma dovuta per interessi di molto superiore a quella che si sarebbe avuta con la semplice applicazione del tasso legale.

La sentenza del Tribunale di Firenze

A tal proposito, la sentenza del Tribunale di Firenze citata in apertura non afferma niente di rivoluzionario in materia; tuttavia, essa è interessante perché affronta per prima l’applicazione della normativa del 2014, non rinvenendosi precedenti in giurisprudenza. In particolare, il Giudice ha stabilito che sia sufficiente, al momento della domanda, richiedere genericamente gli interessi legali su di una somma di denaro per poter consentire l’applicazione d’ufficio, in sentenza, del tasso di interesse maggiorato di cui al quarto comma dell’art. 1284 Cod. civ. In altre parole, anche se chi agisce non ha espressamente chiesto gli interessi ai sensi dell’art. 1284 Cod. civ., ma solo gli interessi al tasso legale, potrà vedersi riconosciuti quelli della riforma del 2014, purché la causa sia iniziata dopo l’entrata in vigore del D.L. n. 132/2014 (dunque dopo l’11.12.2014).

Il tasso previsto per gli interessi moratori dalla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali è, del resto, un tasso d’interesse legale a tutti gli effetti. Il giudice, quindi, che lo applichi d’ufficio su richiesta generica del creditore non incorre nel vizio di ultra-petizione, non facendo altro che qualificare giuridicamente (e correttamente) la domanda.

Dal 2014, dunque, chiunque debba delle somme di denaro troverà poco conveniente resistere in maniera infondata in giudizio: il conto che gli si presenterà alla fine sarà salato.

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Metti un diamante in banca

Periodicamente, in materia d’investimenti, esplodono grandi scandali connessi a strumenti finanziari venduti ai risparmiatori come appetibili, convenienti e sicuri, che si rivelano invece spazzatura. Negli ultimi anni sono stati numerosi i casi di italiani che hanno visto sfumare i propri risparmi, perché erroneamente consigliati dalle proprie banche e dai propri consulenti al momento di decidere dove investire il loro denaro. Dai bond argentini ai casi Cirio e Parmalat, dal crack Lehman Brothers alle obbligazioni subordinate di Banca Etruria, fino alle azioni della Banca Popolare di Vicenza, l’elenco è lungo e vario. L’elemento comune di tutte le vicende è, però, l’esistenza di uno strumento finanziario particolarmente rischioso, o con prezzo stabilito arbitrariamente, che si è improvvisamente svuotato di valore, mandando in fumo risparmi d’intere famiglie ignare di ciò in cui avevano realmente investito i propri risparmi.

Al di là delle diverse vicende economiche che si trovano alla base del deprezzamento dei singoli strumenti, le perdite subìte dai risparmiatori sono state (quasi) sempre direttamente imputabili ad una condotta scorretta della banca nella sua veste di intermediario finanziario, che non aveva correttamente informato l’acquirente della reale natura dei titoli e dei rischi ad essa connessi.

Laddove si rinvenga la violazione di obblighi informativi – unitamente ad altre condotte previste dal D.Lgs. n. 58/1998 (Testo unico in materia di intermediazione finanziaria) – è possibile agire in giudizio per chiedere la risoluzione per inadempimento, da parte dell’intermediario finanziario, del contratto quadro di investimento e dei singoli ordini, così da poter ottenere il risarcimento delle somme perdute. Somme che, se correttamente informato, il risparmiatore avrebbe destinato ad altre tipologie d’investimento.

Ciò detto in maniera estremamente semplificata – nella consapevolezza che ogni caso presenta singolarità fattuali e giuridiche – è anche grazie alla tutela offerta dai Tribunali che molti risparmiatori sono riusciti a rivedere in tutto o in parte i propri risparmi.

Il caso dei diamanti da investimento

Nelle ultime settimane in materia d’investimenti si è aperto un nuovo fronte per i risparmiatori che hanno visto sfumare i loro risparmi, iniziato per la verità con una puntata della trasmissione Report dell’ottobre del 2016. Si tratta della questione dei diamanti da investimento.

Nel mese di settembre, infatti, l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (c.d. Antitrust) ha comminato multe per complessivi 15,35 milioni di € a due società che commerciano diamanti (la Intermarket Diamond Business S.p.a. e la Diamond Private Investment S.p.a.) e a quattro banche che fungevano da intermediarie (Unicredit, Banco BPM, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi di Siena), per aver attuato pratiche commerciali scorrette e ingannevoli per i consumatori.

Come avviene anche per l’oro e per le materie prime in generale, i diamanti sono visti come bene rifugio, il cui prezzo – corrispondendo ad un valore intrinseco reale – tende a rimanere pressoché inalterato nel tempo, anche in periodi di crisi economica e di instabilità dei prezzi. Si tratta, quindi, di un investimento sicuro, che non genera grandi rendimenti ma serve a proteggere il capitale investito.

La decisione del Garante

Ebbene, con due decisioni assunte lo scorso 20 settembre, l’Antitrust ha accertato sistematiche violazioni relative alla compravendita di diamanti a fine di investimento; violazioni commesse dalle due società I.D.B. S.p.a. e D.P.I. S.p.a. e dalle banche con le quali esse operavano per collocare le pietre ai risparmiatori. Si tratta, in particolare, dell’accertamento di modalità ingannevoli ed omissive con le quali i diamanti venivano offerti ai risparmiatori, ossia di violazioni in materia di pratiche commerciali nell’ambito della compravendita di strumenti finanziari. Nel caso di specie, il Garante ha stabilito che le società “hanno offerto l’acquisto di diamanti da investimento diffondendo informazioni omissive ed ingannevoli in merito alle caratteristiche dell’investimento proposto, al prezzo dei diamanti e alla convenienza economica di tale acquisto.

In particolare, nel materiale promozionale e illustrativo […] e in quello utilizzato dal personale delle banche alle quali si rivolgeva il consumatore interessato all’acquisto, si rappresentavano in modo ingannevole ed omissivo: a) il prezzo di vendita dei diamanti – autonomamente fissato dal professionista e comprendente costi e margini di importo complessivamente superiore al valore della pietra – presentato come quotazione di mercato e pubblicato a pagamento su giornali economici; b) l’aspettativa di apprezzamento del valore futuro dei diamanti, attraverso grafici costruiti sull’andamento dei propri prezzi di vendita presentati come “quotazioni”, messe a confronto con indici ufficiali e quotazioni di titoli stabilite in mercati regolamentati; c) la facile liquidabilità e rivendibilità del diamante, quando invece l’unico canale di rivendita attraverso il quale avrebbero potuto essere realizzati i guadagni prospettati è rappresentato dagli stessi professionisti; d) la qualifica di leader di mercato, impiegata senza ulteriori precisazioni, al fine di conferire un maggiore affidamento alla propria offerta.”.

A ciò si aggiunga l’accertamento di violazioni in materia di diritto di recesso del consumatore e di foro competente, nella modulistica che le due società avevano predisposto per la compravendita delle pietre.

Le motivazioni della decisione

Il Garante, nel comminare le multe, ha riscontrato violazioni delle norme a tutela dei consumatori, contenute nel D.Lgs. n. 205/2006 (c.d. Codice del consumo). Rimangono sullo sfondo, dunque, i profili di responsabilità per violazione di norme in materia d’intermediazione finanziaria, che hanno sempre accompagnato la compravendita di strumenti e titoli.

Anche perché il presupposto è che, non esistendo in teoria un limite al godimento dei diamanti acquistati a fini d’investimento, secondo la Consob non dovrebbe essere applicabile la disciplina del Testo unico in materia d’intermediazione finanziaria, anche se la vendita avviene attraverso canali bancari, “a meno che tale vendita non si configuri esplicitamente come offerta di un prodotto finanziario, grazie alla esplicita previsione, anche tramite contratti collegati, di elementi come, ad esempio, promesse di rendimento, obblighi di riacquisto, realizzazione di profitti ovvero vincoli al godimento del bene.”.

Dall’accertamento dell’Autorità Garante, è emerso che le società e le banche presentavano l’investimento in diamanti come assolutamente sicuro, sia con riferimento alla conservazione del valore nel tempo (ed al trend positivo del prezzo dei diamanti), sia in relazione alla facilità di rivendita, anche grazie ad una rete commerciale messa a disposizione dalle due società incriminate. Il prezzo più alto praticato da I.D.B. e D.P.I. era giustificato con servizi aggiuntivi erogati al risparmiatore; tra questi, il principale era senza dubbio l’assistenza alla rivendita dei diamanti, al prezzo pubblicato sui maggiori quotidiani ed in un lasso di tempo molto breve.

Messi di fronte all’acquisto di un bene rifugio facilmente rivendibile, molti correntisti sono stati convinti ad investire i loro soldi. Il punto è che l’Antitrust ha stabilito che essi sono stati ingannati.

Infatti, l’istruttoria del Garante ha accertato che il prezzo – effettivamente pubblicato dalle società venditrici su Il Sole 24 Ore – non aveva in realtà alcun riferimento al valore di mercato delle pietre (individuato sulla base di indici di riferimento internazionali), ma era fissato dall’intermediario in modo del tutto arbitrario. L’Autorità ha calcolato che solo una parte del prezzo fosse costituito dall’effettivo prezzo di mercato della pietra. La parte rimanente era costituita da commissioni, i.v.a. e un margine di profitto che I.D.B. e D.P.I. si erano ritagliate. Questa modalità di fissazione del prezzo – di cui pare fossero all’oscuro anche le banche intermediarie – ha prodotto il risultato di un esborso ingiustificato per il risparmiatore, ben superiore al valore di mercato.

Anche l’andamento crescente dei prezzi delle pietre, che veniva rappresentato come prospettiva redditizia agli investitori, era in realtà scollegato dagli indici internazionali, presentandosi come andamento annuale del prezzo di vendita delle imprese, progressivamente aumentato dai venditori.

Circa la facilità di rivendita delle pietre (dunque di disinvestimento), è emerso che le società non riacquistavano direttamente i diamanti ma si limitavano semplicemente a cercare un nuovo acquirente all’interno del loro circuito di riferimento, avvalendosi di società d’intermediazione da loro controllate. Questo meccanismo non dava in realtà alcuna garanzia sui tempi e sul prezzo di rivendita; anzi, dati del Garante alla mano, per gli investimenti a breve termine la volontà di rivendere i diamanti si traduceva sempre in una perdita per il consumatore. Anche perché le società applicavano una commissione in caso di rivendita, variabile a seconda degli anni in cui si era mantenuto l’investimento.

In tutto ciò, le quattro banche coinvolte sarebbero responsabili per aver consigliato – anche con insistenza – l’investimento in diamanti ritenuto come sicuro, senza fornire le adeguate informazioni e addirittura spingendo alcuni clienti a disinvestire denaro per destinarlo all’acquisto delle pietre, accogliendo in modo acritico il materiale informativo predisposto dalle due società venditrici. Il Garante ha affermato che “il fatto che l’investimento fosse proposto da parte del personale bancario e la presenza del personale bancario agli incontri tra i due professionisti e i clienti, forniva ampia credibilità alle informazioni contenute nel materiale promozionale delle due società, determinando molti consumatori all’acquisto senza effettuare ulteriori accertamenti.”.

Del resto, le banche rappresentavano il principale canale di vendita dei diamanti, ed avevano stipulato con I.D.B. e D.P.I. particolari accordi commerciali, che portavano nelle loro casse commissioni crescenti in base al volume di collocamento delle pietre presso la loro clientela.

Se è vero che ad oggi entrambe le società hanno fatto ricorso al T.a.r. contro il provvedimento del Garante, è anche vero che nel frattempo sono stati aperti tavoli con le principali associazioni dei consumatori per modificare le pratiche di commercializzazione dei diamanti.

Nessun dubbio, però, sul fatto che i due provvedimenti Antitrust, avendo accertato determinate condotte in violazione alla Legge, abbiano aperto la strada alla tutela giurisdizionale di quei risparmiatori che con i diamanti hanno solo perso denaro.

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Il danno non patrimoniale tra sistema tabellare e tendenze giurisprudenziali

Il recente consolidamento di un filone giurisprudenziale della Sezione III della Corte di Cassazione, unitamente a recenti provvedimenti in discussione in Parlamento, ci hanno offerto lo spunto per parlare di alcune problematiche che da anni coinvolgono il danno non patrimoniale ed il suo risarcimento, ripercorrendo alcuni passaggi fondamentali fino alla situazione attuale.

Le plurime voci di danno e il pericolo di duplicazioni risarcitorie: le Sezioni Unite e le tabelle

I danni che una persona ha subìto da un fatto illecito altrui possono incidere a più livelli nella sua sfera personale. Che sia stata vittima di un reato, o abbia subito una menomazione fisica, la vita di una persona può rimanere profondamente segnata da eventi cagionati da condotte altrui, con la conseguente necessità di ottenere un risarcimento per la sofferenza patita. Quelli di cui si parla in questo caso sono danni non patrimoniali, che non comportano una diminuzione delle sostanze del danneggiato, ma provocano una lesione non immediatamente convertibile in un valore monetario.

Le molteplici dimensioni che caratterizzano la vita delle persone hanno portato all’elaborazione di plurime voci di danno non patrimoniale, come ad esempio il danno biologico, esistenziale o morale. Ciascuna identifica la lesione di uno specifico ambito della vita, con la necessità di stabilire le modalità per la quantificazione di ciascuna voce. La degenerazione di tale sistema aveva portato spesso, però, a duplicazioni risarcitorie, nel senso che una medesima conseguenza dannosa veniva risarcita più volte solo perché, in un certo senso, le si cambiava etichetta.

Per questo era intervenuta un’importante presa di posizione da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, nel 2008 (anno delle c.d. sentenze gemelle di S. Martino: Cass. civ., Sez. Un., sentt. n. da 26972 a 26975/2008), avevano affermato la natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale, finalizzata anche ad evitare duplicazioni risarcitorie attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici. Al tempo stesso, con le medesime sentenze, si era affermato il principio per cui fosse necessario superare la c.d. soglia di risarcibilità, sotto cui il danno è da considerarsi bagatellare e non meritevole di risarcimento.

A queste pronunce si era andata via via adeguando gran parte della giurisprudenza successiva, producendo talvolta un indiretto appiattimento – da alcuni giudicato eccessivo – su di un sistema risarcitorio basato sulle tabelle elaborate da alcuni Tribunali italiani.

Come accennato, infatti, il danno non patrimoniale necessita di essere valutato economicamente e convertito in denaro, per poi essere risarcito. Alcuni Tribunali (in particolare Milano e Roma) avevano sviluppato in sistema di tabelle che tenessero conto dell’età della persona al momento del danno e delle percentuali d’invalidità attribuite dalle valutazioni medico-legali, per poi tradurre il tutto in valori economici. Si tratta di un sistema incentrato sul danno biologico, applicabile con apposite personalizzazioni anche ai danni morali ed esistenziali. A partire dal 2011, la Cassazione aveva poi affermato più volte che le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano sono applicabili su tutto il territorio nazionale.

L’interpretazione delle Sezioni Unite del 2008, con l’applicazione di tabelle fondate sulle percentuali del danno biologico, aveva finito per privare di autonomia ontologica le voci di danno morale ed esistenziale (divenute semplici categorie descrittive), ricomprese all’interno dell’unitaria categoria del danno non patrimoniale e risarcite tramite la personalizzazione del danno biologico in base ai calcoli tabellari.

La giurisprudenza sull’autonomia del danno esistenziale

A dispetto di queste importanti prese di posizione, il sistema del danno non patrimoniale non riusciva a trovare un assetto stabile e definitivo.

Da un lato, infatti, si riscontrava la resistenza di alcuni Tribunali (in particolare Roma) nell’utilizzare le tabelle milanesi (con il rischio di una forte differenziazione nel risarcimento a seconda del Foro in cui si proponeva la domanda), dall’altro alcune pronunce della Suprema Corte si discostavano parzialmente dalla ricostruzione delle Sezioni Unite del 2008, riportando in auge, come categoria ontologicamente autonoma e dunque autonomamente risarcibile, il danno esistenziale.

Ad esempio, era il caso di Cass. civ., Sez. III, sent. n. 531/2014, secondo cui “la mancanza di danno biologico non esclude la configurabilità del danno morale soggettivo e di quello dinamico-relazionale, quale conseguenza autonoma della lesione e pertanto, ove il fatto lesivo abbia profondamente alterato il complesso assetto dei rapporti personali all’interno della famiglia, il danno non patrimoniale per lesione di interessi costituzionalmente protetti deve trovare ristoro nella tutela apprestata dall’art. 2059 cod. civ.”. Conforme anche la successiva Cass. civ., Sez. III, sent. n. 18611/2015, che, nel cassare una sentenza d’appello che non aveva riconosciuto autonoma valutazione al danno esistenziale, affermava che “non si tratta di una duplicazione di voci di danno, ma della negazione del diritto del macroleso a ricevere un equo ristoro per il risarcimento della perdita della sua dignità di persona e di diritto alla vita attiva”.

In questo complicato (e importantissimo, dato che incide sul diritto dei danneggiati ad ottenere un adeguato risarcimento) quadro, si sono inserite due recenti novità: la prima legislativa, la seconda giurisprudenziale.

Il disegno di Legge in discussione in Parlamento

Dal punto di vista legislativo, lo scorso 21 marzo la Camera dei Deputati ha approvato in prima lettura il disegno di Legge n. 1063-A recante “Modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale”. Con questa normativa s’introdurrebbe l’art. 84-bis disp. att. c.c., con la previsione di utilizzare le Tabelle del Tribunale di Milano sia per il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica, sia del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto di tipo familiare. Sarebbe inoltre prevista la possibilità di aumentare il risarcimento del 50% in base alle condizioni soggettive del danneggiato.

La recente giurisprudenza della Sezione III che rifugge gli automatismi risarcitori

Circa l’evoluzione giurisprudenziale, nel corso del 2016 sono intervenute una serie di pronunce che tendono a marginalizzare la liquidazione del danno tramite tabelle, in favore di una maggior attenzione al caso concreto e alla sofferenza patita dal danneggiato.

In questo senso, la sentenza più significativa è senz’altro Cass. civ., Sez. III, sent. n. 7766/2016, (relatore dott. Travaglino), che – inserendosi nel solco tracciato dal medesimo relatore con precedenti pronunce – ha stabilito l’autonomia ontologica del danno morale.

Ad onor del vero, si tratta di un arresto che non giunge isolato, posto che molteplici erano state le voci, in parziale disaccordo con le sentenze del 2008, che avevano parlato dell’autonoma sussistenza del pregiudizio morale. Si vedano ad esempio, per citare pronunce con relatori diversi dal dott. Travaglino, Cass. civ., Sez. III, sent. n. 11701/2009 e Cass. civ., Sez. III, sent. n. 5770/2010. In quest’ultima pronuncia si affermava l’impossibilità di quantificare la sofferenza morale come una percentuale del danno biologico, rifuggendo gli automatismi risarcitori imposti dalle tabelle, il tutto per “rendere la somma liquidata adeguata al particolare caso concreto ed evitare che la stessa rappresenti un simulacro di risarcimento”.

La pronuncia n. 7766/2016 compie un ragionamento articolato sul quale vale la pena di soffermarsi, riportandone anche ampi passaggi, per giungere ad affermare che danno morale e danno esistenziale sono “i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo.

Riprendendo la sentenza n. 235/2014 delle Corte costituzionale, la Sezione III della Cassazione afferma che, al di fuori del circoscritto ambito delle lesioni c.d. micro-permanenti, l’aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali (c.d. danno esistenziale) della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, senza che si possa parlare di duplicazione risarcitoria.

Al tempo stesso, secondo la Cassazione, una diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore, ossia al danno morale, senza che alcun automatismo risarcitorio sia predicabile. Quindi “Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell’essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza”.

Il Giudice chiamato a valutare e quantificare il risarcimento del danno non patrimoniale dovrà, allora, tenere conto della prova della sofferenza patita dal danneggiato, facendo riferimento alle sue condizioni soggettive e potendo anche ricorrere a presunzioni e a fatti notori, se del caso in via esclusiva, come del resto era già stato affermato dalle Sezioni Unite del 2008.

Insomma, se al danno esistenziale sembra riconosciuta un’autonomia e una quantificazione attraverso la personalizzazione effettuabile con i calcoli tabellari, anche il danno morale merita un risarcimento ad hoc, sganciato da rigidi calcoli. Interessante quanto affermato dal dott. Travaglino nella sentenza n. 7766/2016: “al di là delle sterili diatribe terminologiche, sarebbe sufficiente al giudice (a qualsiasi giudice) dismettere il supponente abito di peritus peritorum ed ascoltare la concorde voce della scienza psicologica, psichiatrica, psicoanalitica, che comunemente insegna, nell’occuparsi dell’essere umano, che ogni individuo è, al tempo stesso, relazione con se stesso e rapporto con tutto ciò che rappresenta “altro da se”, secondo dinamiche chiaramente differenziate tra loro, se è vero come è vero che un evento destinato ad incidere sulla vita di un soggetto può (e viceversa potrebbe non) cagionarne conseguenze sia di tipo interiore (non a caso, rispetto al dolore dell’anima, la scienza psichiatrica discorre di resilienza), sia di tipo relazionale, ontologicamente differenziate le une dalle altre, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, necessariamente indagabili, caso per caso, quanto alla loro concreta (e non automatica) predicabilità e conseguente risarcibilità.

E tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza umana.

È questo il compito cui è chiamato il giudice della responsabilità civile, che non può mai essere il giudice degli automatismi matematici ovvero delle super-categorie giuridiche quando la dimensione del giuridico finisce per tradire apertamente la fenomenologia della sofferenza.”.

Sulla stessa lunghezza d’onda anche le successive sentenze, sempre della Sezione III (relatore dott. Scarano), nn. 21058 e 21059/2016. Nel primo caso, sempre con riferimento al danno morale, si è affermata l’esclusione di una liquidazione affidata a meccanismi semplificativi di tipo automatico, ritenendo errato il ricorrere a frazioni dell’importo liquidato a titolo di danno biologico. Nel secondo caso, invece, si è cassata la sentenza d’appello perché non aveva liquidato il danno esistenziale.

In entrambe queste sentenze la Corte ha sottolineato che, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non già il nome (biologico, morale o esistenziale) assegnato dal giudice al pregiudizio lamentato, ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame nel processo. Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l’uso di nomi diversi. Infatti, è compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio subìto, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative si siano verificate sulla persona, e provvedendo al relativo integrale ristoro.

In conclusione, è possibile affermare che il sistema del risarcimento del danno non patrimoniale conosce tuttora una forte tensione, data da spinte contrapposte. Da un lato, infatti, si afferma l’importanza dell’utilizzo di tabelle unitarie su tutto il territorio nazionale, dall’altro si rifuggono le semplificazioni risarcitorie e si riscopre la complessità del danno alla persona, imponendone il risarcimento sì unitario e onnicomprensivo, ma tenendo conto delle molteplici lesioni che possono essere provocate all’individuo nel caso concreto.

La nuova Legge sulla responsabilità del medico

Lo scorso 28 febbraio è stata approvata in via definitiva dalla Camera la c.d. Legge Gelli (L. n. 24/2017), di cui più volte abbiamo dato conto nelle nostre news. Entrata in vigore il 1 aprile, questa Legge composta di 18 articoli si propone di superare le incertezze interpretative causate dalla precedente L. n. 189/2012, ridefinendo i confini della responsabilità del sanitario e operando un bilanciamento tra diritti in capo a medico e paziente.

Il contenuto di quello che allora era un disegno di legge è già stato esaminato nelle news del giugno scorso, ragion per cui in questo caso ci soffermeremo sugli aspetti più significativi che riguardano l’ambito della responsabilità civile del medico.

In ambito penale, invece, fondamentale è l’introduzione dell’art. 590-sexies c.p., che prevede una causa di non punibilità per il medico che, nella sua condotta, abbia rispettato le linee guida (elaborate da enti e istituzioni iscritti in un elenco gestito dal Ministero) o le buone pratiche clinico-assistenziali che risultino adeguate alla specificità del caso concreto. Viene dunque meno il richiamo alla colpa lieve, contenuto nella previgente Legge Balduzzi.

Dal punto di vista della responsabilità civile, l’aspetto più significativo, già evidenziato in sede di d.d.L., riguarda la determinazione legislativa della natura della responsabilità del medico e della struttura ospedaliera (art. 7).

Nel caso della struttura sanitaria, la legge parla di responsabilità contrattuale. Si tratta di un’affermazione su cui la giurisprudenza si era ormai consolidata, facendo riferimento al contratto atipico di spedalità, che il paziente concluderebbe con la struttura al momento del ricovero. Trattandosi di un contratto a contenuto ampio e complesso, includente prestazioni di assistenza e obblighi di protezione, già prima della Legge Gelli era stato affermato che in caso di comportamento negligente o colposo del medico ne rispondesse anche l’ospedale o la clinica. Questo perché è solo attraverso il medico che la struttura può erogare le prestazioni sanitarie comprese all’interno del contratto di spedalità.

Per quanto riguarda il singolo medico, invece, l’art. 7 della Legge Gelli prevede che egli risponda dei danni eventualmente cagionati al paziente a titolo di responsabilità extracontrattuale. Il legislatore pone così rimedio alle incertezze provocate dall’art. 3 della Legge Balduzzi, ma ribalta anche totalmente gli assunti della giurisprudenza di legittimità, che riconduceva le prestazioni sanitarie all’interno del c.d. contatto sociale, e dunque della responsabilità contrattuale. Tuttavia, la norma si premura di escludere la responsabilità extracontrattuale del medico nei casi in cui la prestazione sanitaria sia eseguita in costanza di un rapporto contrattuale con il paziente. Le prestazioni intramoenia, invece, rimangono nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, ma le strutture sanitarie risponderanno sempre a titolo contrattuale.

L’art. 7 prevede anche che il danno risarcibile ai pazienti sia quantificato in base alle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del D.Lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private). Se ciò vale per le lesioni di entità inferiore al 9% di invalidità permanente, per quelle di gravità superiore si potranno applicare le tabelle milanesi, dato che non risultano ancora adottate tabelle uniche su tutto il territorio nazionale.

L’aver stabilito una responsabilità – almeno di norma – extracontrattuale in capo al medico, rende di sicuro maggiormente gravosa la proposizione di azioni da parte dei pazienti, posto il termine di prescrizione quinquennale che caratterizza tale responsabilità e la necessità di provare anche tutti gli elementi della fattispecie (condotta, danno, nesso di causa ed elemento soggettivo). Non a caso, è stato notato dai primi commentatori come al fine di evitare il dilagare della c.d. medicina difensiva, il legislatore abbia voluto rendere più difficile agire contro il medico, dando in cambio la possibilità di chiedere sempre il risarcimento a titolo contrattuale alle strutture sanitarie.

Contrappeso a questo sistema è l’azione di rivalsa esercitabile, da parte degli istituti, nei confronti del medico, ma solo in caso di dolo o colpa grave ed entro un anno dal pagamento del risarcimento al paziente (art. 9).

In questo quadro assumono un ruolo centrale le assicurazioni, di cui gli istituti devono obbligatoriamente dotarsi a copertura del rischio per i danni cagionati dal personale, a qualunque titolo esso operi (cfr. art. 10). Come nell’ambito della circolazione stradale, poi, il paziente che abbia subìto un danno ha azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazioni, con obbligo però di citare anche la struttura sanitaria o il medico responsabile (art. 12).

Tuttavia, non si potrà agire in giudizio senza prima aver esperito un tentativo di conciliazione (art. 8). La novità della norma riguarda non tanto il richiamo all’istituto della mediazione – già obbligatoria come condizione di procedibilità in molti casi – ma, in alternativa, all’accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696-bis c.p.c.

Di conseguenza, se si sceglie questa seconda strada, verrà effettuata una consulenza tecnica da un collegio di medici (cfr. art. 15), che cercheranno anche di conciliare le parti. In quest’attività assume rilevanza l’offerta economica che l’impresa di assicurazione (obbligata a partecipare al procedimento) deve necessariamente fare al danneggiato (oppure comunicare i motivi per cui ritiene di non farla), ai sensi dell’art. 8, pena la trasmissione della sentenza favorevole al paziente all’Ivass, per le verifiche del caso.

Il termine per esperire l’accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi è di sei mesi, decorsi i quali la domanda giudiziale diviene procedibile. La Legge Gelli sembra poi prevedere che, in caso si sia optato per l’a.t.p. invece della mediazione, la successiva causa debba essere necessariamente introdotta con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c.

Pur se già in vigore, la L. n. 24/2017 necessità comunque di alcuni passaggi attuativi per divenire pienamente operativa. Infatti, dovranno essere definite le funzioni di vigilanza dell’Ivass sulle imprese di assicurazione, le cui polizze (divenute obbligatorie) dovranno essere definite nei requisiti minimi con un decreto ministeriale entro 120 giorni dalla pubblicazione della Legge.

Infine, sempre entro 120 giorni andrà adottato il regolamento del fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, previsto dall’art. 14. Si tratta di uno strumento finanziato da versamenti da parte delle compagnie assicurative, volto a garantire i pazienti in caso di danni che eccedano i massimali, o in caso d’insolvenza della compagnia o ancora in presenza di una scopertura assicurativa.

Il danno nelle azioni di responsabilità verso gli organi sociali

Con la recente sentenza n. 38/2017, la Sezione I della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sui criteri di quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità esperite nei confronti degli organi sociali. Questa pronuncia ci fornisce lo spunto per compiere una breve analisi delle criticità e degli interventi giurisprudenziali che si sono registrati negli ultimi anni sul punto, con particolare riferimento alle azioni promosse dalle curatele.

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore

Delle molteplici azioni che possono essere esperite nei confronti degli amministratori e sindaci di una società, un particolare rilievo pratico assume quella esercitata dal curatore fallimentare, ai sensi dell’art. 146 L.f. Questa disposizione consente all’organo della procedura di far valere in giudizio le azioni che spetterebbero alla società e ad i creditori sociali in una volta sola. Tralasciando il dibattito sulla natura di questa azione (se nell’interesse della massa, cumulativa, scindibile o meno), non si può fare a meno di notare come le richieste risarcitorie nei confronti degli organi societari siano, nella maggior parte dei casi, mosse proprio dai curatori, una volta che la società è divenuta insolvente ed è stata dichiarata fallita. Ciò perché molte volte le maggioranze assembleari necessarie ad agire in giudizio coincidono con quelle del gruppo di controllo, di cui gli amministratori sono espressione. I creditori sociali, poi, talvolta non sono in possesso di dati fondamentali ad intraprendere simili azioni.

Le azioni di responsabilità, nei confronti di qualunque organo e all’interno di qualsiasi tipo di società, sono azioni risarcitorie, dunque finalizzate ad ottenere una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno. Non possono sussistere simili azioni senza un danno, la cui prova spetta sempre a chi agisce in giudizio (indipendentemente dalla natura – contrattuale o extracontrattuale – che viene riconosciuta alle diverse tipologie di azione). Nel caso dell’art. 146 L.f., dunque, spetterà al curatore non solo provare l’esistenza di un danno, ma anche quantificarlo.

L’ambito applicativo della liquidazione in via equitativa

Con riferimento a quest’ultimo aspetto (la quantificazione del danno), in molti casi essa può essere particolarmente complessa, perché se anche si riesce a provare l’esistenza di conseguenze patrimoniali sfavorevoli per la società, causate da determinate condotte degli organi di gestione o di vigilanza, non sempre è possibile determinarne il preciso ammontare. In questi casi, allora purché sia stata provata l’esistenza del pregiudizio, è possibile per il giudice ricorrere alla liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c.

Come precisato anche da due recenti sentenze (Cass. civ., Sez. III, sentt. n. 127 e 6218/2016) il potere del giudice di procedere a liquidazione equitativa può essere esercitato a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile sia stata dimostrata, e nel solo caso di obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova della sua quantificazione. Perciò, nel nostro caso, è compito della curatela dimostrare ogni elemento di fatto di cui possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficoltà, per far sì che la valutazione equitativa colmi soltanto le lacune riscontrate insuperabili nella precisa quantificazione del danno.

La corretta quantificazione del danno risarcibile assume un ruolo centrale nelle azioni di responsabilità verso gli organi sociali: è quella la somma di cui le singole persone fisiche, che rivestono le cariche, saranno chiamate a rispondere, nonché manifestazione del rischio per le quali le medesime si assicurano.

Le Sezioni Unite del 2015 sul criterio del deficit fallimentare

Le molteplici difficoltà che si riscontrano in controversie caratterizzate da un alto grado di complessità contabile, unitamente al ricorso al criterio equitativo, hanno portato spesso ad un’eccessiva semplificazione nella quantificazione delle richieste economiche. Le curatele hanno finito così per richiedere ad amministratori e sindaci (ma anche ai singoli soci, nel caso di s.r.l.) somme molto elevate, pari alla differenza tra attivo e passivo accertato in sede fallimentare. Il ricorso al deficit fallimentare, cui spesso si è fatto utilizzo in presenza di violazioni ampie e generalizzate o di mancanza o alterazione della contabilità, è un criterio che rischia di essere errato sia per eccesso (si pensi alla rettifica del valore dei cespiti in ottica fallimentare) sia per difetto (non tutti i creditori potrebbero essersi insinuati al passivo).

Proprio al fine di porre rimedio all’utilizzo distorto del criterio del deficit fallimentare per quantificare il danno, è intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 9100/2015.

Lo spunto deriva da due sentenze del 2011 (la n. 5876 e la n. 7606), le quali, in contrasto con la giurisprudenza che si era ormai delineata, avevano affermato che la totale mancanza di scritture contabili – come nel caso di contabilità sommaria e non intellegibile – di per sé giustifica la condanna dell’amministratore, in quanto la violazione di tale obbligo non consente, di fatto, alla curatela attrice di provare il nesso eziologico e, quindi, giustifica l’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore convenuto, che deve dimostrare che il dissesto non è riconducibile alla sua condotta.

Muovendo dal principio dell’onere della prova, le Sezioni Unite affermano che chi agisce in responsabilità deve provare il danno ed il nesso di causa tra la condotta che si assume tenuta dal danneggiante (che andrà almeno allegata in giudizio) ed il danno medesimo.

A questo punto le Sezioni Unite si pongono un interrogativo cruciale: esiste un inadempimento degli organi sociali tale da provocare un danno corrispondente all’intero deficit fallimentare? La risposta è che un danno di tale portata potrebbe essere determinato soltanto da quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da incidere sull’intero patrimonio sociale o, comunque, da quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza. Ecco allora che, nel contesto di un’attività d’impresa, connotata per sua natura dal rischio di possibili perdite, la pretesa di far coincidere il danno risarcibile con l’intero deficit fallimentare a fronte di singole condotte addebitate ad amministratori e sindaci perde ogni fondamento.

Ciò soprattutto se si considera l’inadempimento che tradizionalmente è stato ritenuto causa di un danno così ampio, cioè la mancanza o irregolarità delle scritture contabili. Le Sezioni Unite affermano che le scritture contabili registrano accadimenti economici, non li determinano. Per questo, l’unica conseguenza economicamente plausibile, derivante da omissioni in contabilità, appare essere il maggior onere nell’espletamento dei compiti del curatore (dunque un maggior costo per la procedura), non certo l’insolvenza della società.

La Corte si spinge oltre: l’intero deficit fallimentare non può essere addebitato agli organi della società neppure perché la mancanza dei bilanci impedisce al curatore di quantificare il danno sofferto, giustificando – in base al c.d. principio di vicinanza della prova – lo spostamento dell’onere della prova di danno e nesso di causa in capo agli organi sociali. Il principio di vicinanza della prova è applicabile, infatti, solo quando l’attore ha allegato un inadempimento astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si pretende il risarcimento. Ed ecco che, se è vero che la mancanza (o l’irregolarità) delle scritture contabili non appare legata da alcun nesso di causalità, neppure potenziale, con il danno costituito dal deficit fallimentare, allora non può giustificarsi lo spostamento dell’onere della prova a carico degli organi della società convenuti in giudizio.

In caso contrario, il risarcimento del danno assumerebbe natura sanzionatoria, volto a colpire condotte di amministratori e sindaci contrarie alla Legge ma non causative di un danno alla società o ai creditori.

La conclusione del ragionamento delle Sezioni Unite del 2015 ritorna sulla quantificazione equitativa del danno. In caso di difficoltà nello specificare economicamente il danno subìto, la curatela può invocare l’art. 1226 c.c. Ecco allora che, solo a fini di quantificazione, il giudice potrà tenere conto del deficit fallimentare, motivando in modo puntuale quali siano state le ragioni che non hanno consentito l’accertamento degli specifici effetti dannosi causalmente riconducibili alla condotta degli organi sociali, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto che rendono il ricorso al criterio del deficit logicamente plausibile.

Insomma: provata la sussistenza del danno e il nesso di causa con l’inadempimento allegato, il criterio equitativo può tenere in considerazione il deficit fallimentare con tutte le cautele del caso. La valutazione equitativa interviene solo in questi casi e non per determinare il nesso di causa, come, di fatto, era avvenuto nelle sentenze del 2011.

La giurisprudenza successiva, tra conferme e oscillazioni

In giurisprudenza, a fronte di pronunce che già avevano raggiunto le medesime conclusioni delle Sezioni Unite (cfr. Trib. Milano, sent. 22.01.2015 e Trib. Prato, 14.09.2012) vi sono Tribunali che si sono sostanzialmente allineati alla Suprema Corte, come Trib. Ferrara, sent. 1.03.2016 e anche Trib. Pistoia, sent. 19.01.2016, che ha bandito criteri di individuazione e liquidazione del danno che prescindano dal rigoroso accertamento di quali siano le conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e ritenute sussistenti.

Curiosa, invece, C. App. Catania, sent. 30.06.2015 che, nel mentre dichiara di uniformarsi ai principi di cui alla sentenza n. 9100/2015, ritiene che le omissioni contabili e la tipologia di crediti ammessi al passivo (verso erario ed enti previdenziali) siano circostanze gravi precise e concordanti idonee a ritenere provato il nesso causale tra i comportamenti addebitati agli amministratori ed il danno lamentato. Risulta, a detta della Corte d’Appello, così giustificata la richiesta di risarcimento correlata alla differenza tra attivo e passivo fallimentare. In altre parole, si utilizzano gli elementi che le Sezioni Unite vorrebbero a base del ragionamento equitativo per la quantificazione del danno, come presunzioni di nesso causale tra danno e condotte addebitate agli amministratori. Proprio le stesse condotte, peraltro, che le Sezioni Unite avevano giudicato inidonee a cagionare un pregiudizio pari al deficit fallimentare.

In questo quadro s’inserisce da ultimo Cass. civ., Sez. I, sent. n. 38/2017, che riprende ed applica correttamente il principio di diritto enunciato nel 2015 dalle Sezioni Unite. Anche in questo caso la Corte ha cassato la sentenza d’appello che aveva condannato amministratori e sindaci al risarcimento di una somma pari al deficit fallimentare, ritenendoli responsabili di aver smarrito i libri sociali. La Cassazione, richiamando l’autorevole precedente, ribadisce come il fatto che il danno possa essere liquidato equitativamente non implica l’applicazione di un criterio di meccanica commisurazione di esso alla differenza tra attività e passività sociali.

La corretta applicazione dei principi di diritto fin qui esaminati, se ha il pregio di fare chiarezza sulla prova del danno e del nesso di causalità, renderà certamente più complesse le azioni esperite dalle curatele. L’esigenza di attribuire agli organi sociali danni economici solo effettivamente provocati talvolta si può scontrare con una contabilità alterata ad arte, che rende impossibile una quantificazione del danno, soprattutto se si pensa ad azioni che iniziano ad anni di distanza dalle condotte incriminate.

Ad ogni modo, tutto dipenderà dal tipo di approccio, più o meno rigoroso (o, se si preferisce, più o meno filo-curatela) che i giudici di merito sceglieranno. Bisognerà vedere, cioè, se i Tribunali si accontenteranno di una motivazione “di stile” delle ragioni per le quali l’attore non sia riuscito ad assolvere l’onere della prova, o se invece ne esigeranno una effettiva. Questa dovrà dare conto di un attento e scrupoloso tentativo di ricostruzione del danno risarcibile, e delle ragioni per le quali il ricorso al criterio del deficit fallimentare si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

Se la puzza di fritto è considerata (anche) reato

Si tratta di una sentenza che ha avuto un certo eco, la n. 14467/2017 della Sezione III penale della Corte di Cassazione, perché ha sanzionato penalmente le emissioni di puzza di fritto che un condomino era stato accusato di provocare quotidianamente nel palazzo in cui abita.

Si tratterebbe, secondo la Corte, di una fattispecie da inquadrare nella contravvenzione di cui all’art. 674 del Codice penale, che punisce con l’arresto fino ad un mese o con l’ammenda fino ad € 206 “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”. Il produrre odori molesti in condominio sarebbe quindi “getto pericoloso di cose”, per riprendere la rubrica dell’articolo appena citato, e costituirebbe una vera e propria “molestia olfattiva”, secondo la Cassazione.

Si tratta di una pronuncia che non arriva isolata. Se è vero che probabilmente la puzza di fritto non era mai entrata nelle aule giudiziarie, la medesima Sezione III della Cassazione penale era già giunta alla medesima conclusione per le esalazioni di una pizzeria, con la sentenza n. 45225/2016.

Indubbiamente, inquadrare all’interno di un reato le immissioni sgradevoli di odori in condominio può avere un certo effetto deterrente. Questo è tanto più vero quanto ciò che interessa a chi abita a stretto contatto con la puzza è indubbiamente il farla cessare. La possibilità di ricorrere alla denuncia penale sarà, dunque, un’arma importante per i condomini esasperati, da utilizzare per rafforzare le proprie richieste di cessazione di certe condotte.

I rimedi civilistici e il recente intervento delle Sezioni Unite

Se poi, nel caso concreto, le esalazioni non integrassero un reato, soccorrono comunque i rimedi previsti dal diritto civile, finalizzati all’inibitoria dei comportamenti dannosi e ad ottenere un adeguato risarcimento del danno.

La norma di partenza, come per le immissioni sonore, è l’art. 844 c.c., il quale afferma: “Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.

Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.

In ambito civilistico, dunque, assume un ruolo centrale il criterio della normale tollerabilità. Solo rumori o esalazioni che superano tale soglia sono tali da rendere possibile il ricorso a strumenti di tutela da parte di chi li subisce. Questo criterio, più che finalizzato a indirizzare le condotte dei privati, serve a guidare la valutazione del giudice nella risoluzione di controversie tra vicini. La formula è volutamente generica e rimanda alla valutazione delle circostanze del caso concreto, come la condizione dei luoghi, le attività normalmente svolte in un determinato contesto produttivo, il sistema di vita e le correnti abitudini della popolazione del luogo. Si è poi affermato in giurisprudenza che la normale tollerabilità, pur essendo un criterio oggettivo, non è mai assoluta e va rapportata alla sensibilità di un uomo medio e alla specifica situazione ambientale (c.d. criterio comparativo).

Se gli odori sono intollerabili, i vicini o – come capita più spesso – i condomini, potranno agire in giudizio. La richiesta principale sarà la cessazione dei comportamenti che provocano le immissioni (c.d. inibitoria), accompagnata dal risarcimento del danno (anche non patrimoniale), nel caso in cui esse abbiano avuto un impatto negativo sulle proprie condizioni di vita (si pensi, ad esempio, ai rumori che non fanno dormire la notte o ad odori che pregiudicano la piena libertà nelle abitudini quotidiane). Legittimato ad agire in giudizio è il proprietario dell’immobile che subisce le immissioni altrui, ma in virtù dell’interpretazione dell’art. 1585 c.c. la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere l’azione anche al conduttore.

Molto spesso, data l’urgenza di far cessare esalazioni o rumori intollerabili, si ricorre in giudizio ai sensi dell’art. 700 c.p.c., al fine di ottenere un provvedimento inibitorio d’urgenza, con tempi ridotti rispetto ad una causa ordinaria. Utile, data la natura del provvedimento di condanna a non fare dell’inibitoria, la possibilità di richiedere l’applicazione delle misure coercitive di cui all’art. 614-bis c.p.c. Non potendo materialmente impedire un comportamento da parte del condannato, infatti, l’ordinamento prevede che in questi casi il giudice possa fissare la somma di denaro dovuta al ricorrente per ogni giorno di ritardo nella cessazione delle condotte, o per ogni singola nuova violazione dell’ordine d’inibitoria. In questo modo, la condanna alla cessazione delle esalazioni sarà anche titolo esecutivo per riscuotere le somme dovute in caso di suo mancato rispetto.

Naturalmente, per ottenere una condanna in giudizio occorre fornire la prova della sussistenza d’immissioni che superano la normale tollerabilità. Fondamentale, in materia di odori, il ricorso alla testimonianza; in altri casi, come quello dei rumori, si ricorre spesso all’utilizzo di una consulenza tecnica, che valuti il superamento della normale tollerabilità.

Sul versante del risarcimento del danno conseguente ad immissioni, si segnala la recente presa di posizione delle Sezioni Unite (n. 2611/2017), secondo cui il danno non patrimoniale da immissioni può essere risarcito anche nel caso in cui non sia stata documentata la sussistenza di un danno biologico. Infatti, se sono stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane (diritti costituzionalmente garantiti, e tutelati anche dall’art. 8 della C.E.D.U.), la prova del relativo pregiudizio può essere fornita anche attraverso presunzioni.

Brevi news su temi già affrontati

Banche, responsabilità del medico, unioni civili, novità in tema di concordato preventivo, diritto all’oblio: negli scorsi mesi abbiamo trattato molte tematiche in costante evoluzione. Cerchiamo di vedere brevemente cosa è successo di significativo in questi ultimi mesi.

Alcune notizie sulle banche

Il diritto bancario ha caratterizzato le nostre news, che hanno prima dato conto del c.d. decreto banche e poi analizzato la disciplina dell’anatocismo bancario alla luce delle ultime riforme. La scelta di rendere conto solo delle novità normative – e non di quelle più strettamente economiche o politiche – è inevitabile, dato il grande risalto che i media nazionali danno ogni giorno agli ambiti meno giuridici della questione. Al tempo stesso – fra voci che si rincorrono ed evoluzioni quotidiane – qualsiasi resoconto della situazione rischia di nascere già superato. Ragion per cui abbiamo deciso di dare conto soltanto di alcune notizie recenti, importanti e aventi risvolti significativi sui risparmiatori.

In primo luogo, in seguito al fallito aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena, il Governo ha varato, lo scorso 23 dicembre, il c.d. decreto salva risparmio (D.L. n. 237/2016). Si tratta di poco più di uno schema, che dovrà essere integrato, attuato e specificato in seguito alla conversione in Legge. Alcune misure, però, risultano subito evidenti, a partire dalla creazione di un fondo di € 20 miliardi, cui il Governo potrà attingere per singoli interventi su capitale e liquidità degli istituti di credito. Inoltre, il Governo potrà garantire – a fronte del pagamento di una commissione – l’emissione di nuove obbligazioni da parte di banche in difficoltà, che per il sottoscrittore prenderanno il grado di rischio dello Stato e non dell’emittente. Per Monte dei Paschi di Siena, in particolare, si prevede una ricapitalizzazione precauzionale e temporanea, con lo Stato che diventerà azionista della banca per poi rivendere le quote sul mercato una volta avvenuto il risanamento. Ciò consentirà al Ministero dell’Economia di dettare il nuovo piano industriale dell’istituto. Al tempo stesso, il Decreto Legge chiama a contribuire gli obbligazionisti subordinati, i cui titoli saranno convertiti in azioni al prezzo del 75% del valore nominale (ma è del 100% per le obbligazioni Tier 2, vendute alla clientela retail). Non si tratta di bail in, non applicabile in caso di sostegno pubblico straordinario, ma del cosiddetto burden sharing. In altre parole: gli obbligazionisti subordinati condivideranno parte delle perdite della banca.

In secondo luogo, è inevitabile uno sguardo alla Banca Popolare di Vicenza, molto presente sul territorio pratese in seguito all’incorporazione della Cassa di Risparmio di Prato. A tal proposito, mentre continuano a rincorrersi le voci di una fusione con Veneto Banca e dell’inevitabile aumento di capitale (con un versamento di € 600 milioni già anticipato dal Fondo Atlante), il Consiglio di Amministrazione della Banca ha presentato un piano di rimborso ai soci che hanno visto ridurre il valore delle proprie azioni da € 62,50 ad € 0,01. Le somme offerte si attestano sul 15% del valore delle azioni, da accettare entro fine marzo, rinunciando al tempo stesso a qualunque azione di rivalsa nei confronti dell’istituto. Pare che al rimborso si aggiungeranno offerte commerciali e condizioni economiche dedicate, che potrebbero far salire il corrispettivo rimborsato fino al 30%. Tuttavia, affinché il rimborso scatti, dovrà aderire alla proposta transattiva almeno l’80% dei soci interessati.

Inoltre, è opportuno dare conto dell’entrata in funzione, lo scorso 9 gennaio, dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie (A.C.F.), istituito presso la Consob. Si tratta di un organismo che avrà competenza sui servizi d’investimento, e dunque anche in materia di acquisti effettuati dal risparmiatore in presenza di violazioni delle norme di diligenza, correttezza e trasparenza a carico dell’intermediario. Il funzionamento è simile a quello dell’Arbitro Bancario Finanziario, per cui in seguito ad un reclamo scritto l’investitore potrà sottoporre la questione ad un collegio arbitrale, in modo del tutto gratuito. La decisione non preclude la via del Tribunale, ma è vincolante per l’intermediario finanziario, che è obbligato a partecipare al provvedimento.

Infine, una curiosità: è stata recentemente presentata alla Camera dei Deputati una proposta di Legge che modificherebbe l’art. 612-bis del Codice penale (è la norma sul c.d. stalking), punendo lo stalking bancario, e cioè condotte persecutorie e aggressive realizzate nei confronti dei cittadini dalle società di recupero crediti che lavorano per conto di banche, società finanziarie e grandi aziende.

Su diritto alla salute e responsabilità del medico

Il disegno di Legge Gelli – Bianco, di cui avevamo dato conto nella prima newsletter e che ridefinisce i confini della responsabilità civile e penale del medico, ha conosciuto un’accelerazione lo scorso mese di novembre, quando è stato approvato dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato. Dal 24 novembre scorso il testo si trova all’esame del Senato (n. 2224) ed è attualmente difficile, stante il clima politico e le diverse priorità economiche e sovranazionali, fare previsioni sulla sua approvazione in tempi brevi.

Nell’attesa di normative più chiare e definite, la giurisprudenza continua a delineare i confini della responsabilità del medico. La recente sentenza n. 22639/2016 della Cassazione ha stabilito che, in caso di tenuta negligente della cartella clinica, spetta al medico provare che le eventuali complicanze dannose insorte nel paziente non sono dovute al suo comportamento. In altre parole, la lacunosa compilazione della cartella clinica non esclude il nesso di causa tra condotta del medico e danno subito dal paziente; anzi, la giurisprudenza vi riconosce una presunzione di nesso causale a sfavore del sanitario. Cosicché spetterà a quest’ultimo, per il principio di vicinanza della prova, dimostrare che tale nesso non sussiste nel caso di specie.

I decreti attuativi delle unioni civili

Il 14 gennaio sono stati approvati in via definitiva dal Consiglio dei Ministri tre decreti legislativi attuativi della L. n. 76/2016 sulle unioni civili. Ognuno disciplina un ambito diverso: adeguamento delle norme in materia di stato civile, con riferimento ad iscrizioni e trascrizioni; modifica e riordino delle norme di diritto internazionale privato; disposizioni di coordinamento in materia penale.

Prima dell’approvazione definitiva, i tre decreti attuativi (approvati in via preliminare lo scorso 4 ottobre) hanno ottenuto il parere delle competenti Commissioni parlamentari. Seppur con un piccolo ritardo, si è dunque superato il regime transitorio e si è scongiurato il rischio dell’impossibilità di nuove unioni.

Il termine dell’iter era infatti previsto il 5 dicembre scorso, e il D.P.C.M. n. 144/2016 (c.d. decreto ponte) prevedeva disposizioni transitorie fino all’entrata in vigore dei decreti definitivi, per il quale il Governo aveva un termine di sei mesi (art. 1, comma 28, L. n. 76/2016). Il Consiglio di Stato, nel parere n. 1695/2016, aveva espressamente escluso l’efficacia del decreto ponte nel caso in cui il Governo non avesse approvato i decreti attuativi definitivi entro il termine previsto dalla Legge.

Con la recente approvazione da parte del Governo, le unioni civili sono ormai una realtà ben definita nel nostro ordinamento.

Il concordato preventivo e l’estensione per legge della falcidia i.v.a.

Sempre nella scorsa newsletter ci eravamo soffermati su di una pronuncia della Corte di Giustizia UE (Causa C-546/2014), che aveva smentito la giurisprudenza nazionale circa la possibilità di proporre domande di concordato preventivo che non prevedessero un soddisfacimento integrale del credito i.v.a. dello Stato.

Sulla scia della pronuncia sovranazionale, le Sezioni Unite della Cassazione, con le sentenze n. 26988/2016 e n. 760/2017, hanno stabilito che il credito i.v.a. non è falcidiabile solo in caso di transazione fiscale, dunque respingendo l’interpretazione a tutto campo della norma di cui all’art. 182-ter L. fall.

Ebbene, nell’attesa della riforma organica del diritto della crisi d’impresa predisposta dalla Commissione Rordorf ed attualmente in discussione in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, la Legge di Bilancio 2017 – da poco pubblicata in Gazzetta Ufficiale – ha modificato l’art. 182-ter della Legge Fallimentare. L’intervento pone fine alle incertezze interpretative, stabilendo che anche in caso di transazione fiscale è possibile soddisfare parzialmente il credito per i.v.a. e ritenute. Viene meno, quindi, la norma che era stata interpretata estensivamente e che rendeva impossibile, in certi casi, falcidiare il credito dello Stato per le suddette imposte. Da oggi, qualora il piano proposto dal debitore preveda una soddisfazione del credito i.v.a. dello Stato “in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) della Legge fallimentare” nessun ostacolo sussiste alla falcidia.

Il diritto all’oblio e i suoi limiti

Nella scorsa newsletter avevamo ricordato la legge sul cyberbullismo in discussione al Senato dopo l’approvazione del testo da parte della Camera dei Deputati. Come per il disegno di Legge in materia di responsabilità medica, anche su questo testo – per la verità molto discusso – è impossibile fare previsioni circa i tempi di approvazione, soprattutto nel caso in cui il Senato decidesse di apportarvi modifiche.

Nel frattempo si segnala il provvedimento del Garante della Privacy del 6.10.2016, che ha ribadito come il diritto all’oblio debba soccombere innanzi all’interesse del pubblico alla conoscenza di una vicenda che abbia ad oggetto un reato grave. La questione riguardava un soggetto condannato per reati di corruzione e truffa in danno della pubblica amministrazione, che si era rivolto al Garante per chiedere la de-indicizzazione di articoli sul web che riguardavano la sua vicenda, conclusasi quattro anni prima. Il Garante ha respinto la richiesta, ritenendo che la gravità dei reati e il breve periodo di tempo trascorso dalla sentenza possano giustificare l’interesse del pubblico ad accedere agli articoli; interesse del pubblico che, in questo caso, prevale su quello del condannato alla rimozione della notizia.

La crisi da sovraindebitamento: disciplina e prospettive

La L. n. 3/2012 (successivamente modificata dal D.L. n. 179/2012, convertito nella L. n. 221/2012) ha introdotto la disciplina di composizione delle crisi da sovraindebitamento, nota anche col nome di fallimento del consumatore. L’intento dichiarato è quello di fornire a soggetti non fallibili, gravati da plurimi debiti, uno strumento per sistemare e cancellare tutte le proprie pendenze, consentendo loro d’immettersi di nuovo nel mercato.

La disciplina riprende istituti tipici del diritto della crisi d’impresa, con norme che ricordano ora le disposizioni del concordato preventivo, ora del fallimento, ed introduce per la prima volta nel nostro ordinamento la figura dell’Organismo di Composizione della Crisi (O.C.C.), che sta muovendo i primi passi recentemente anche nella città di Prato. Questo organismo avrebbe il compito di affiancare, grazie all’apporto di professionisti esperti nella gestione di insolvenza e ristrutturazioni, il debitore lungo tutto l’arco della procedura.

Chi può accedere alla procedura, e quando?

La procedura è applicabile al c.d. debitore civile (soggetti non fallibili né assoggettabili a procedure concorsuali, come ad esempio piccoli imprenditori, imprenditori agricoli, ma anche start up innovative, associazioni e fondazioni) e al consumatore, sempre che non abbiano fatto ricorso a una procedura nei cinque anni precedenti.

Per sovraindebitamento la L. n. 3/2012 intende “la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente” (cfr. art. 6, secondo comma). Si tratta, dunque, di uno squilibrio finanziario che sia in grado di determinare uno stato d’insolvenza o di crisi, reversibile o irreversibile.

Quali sono le possibilità per superare la crisi?

Per comporre situazioni del genere la legge individua tre possibilità: l’accordo del debitore, il piano del consumatore (riservato solo a chi ha questa qualifica e la liquidazione del patrimonio.

L’accordo ha per oggetto la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti in base ad un piano che poi dovrà essere approvato dai creditori. Se la percentuale dei creditori favorevoli raggiunge il 60% e viene omologato dal Tribunale, l’accordo diventa vincolante per tutti i creditori. Si tratta di una procedura a controllo giudiziario e basata sull’apporto di organismi specializzati di sostegno (il già citato Organismo di Composizione della Crisi), che per alcuni versi ricorda il concordato preventivo.

Il piano del consumatore, riservato solo a chi è tale, e quindi ha assunto obbligazioni al di fuori dell’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, prescinde dall’approvazione dei creditori. Si tratta di un piano di ristrutturazione che dovrà essere omologato dal Tribunale previa valutazione sulla sua legittimità, fattibilità e convenienza. Una volta approvato dal giudice, il piano vincola tutti i creditori.

Se questi primi due strumenti non sono percorribili per vari motivi, l’alternativa è la liquidazione del patrimonio, una procedura simile al fallimento, con la formazione di uno stato passivo e un’attività di liquidazione formalizzata in un programma.

Particolarmente importante è la possibilità, conseguente alla liquidazione, di chiedere, entro un anno dalla chiusura della procedura, l’esdebitazione. Si tratta della liberazione dei debiti residui che dovessero residuare nei confronti dei creditori concorsuali e non soddisfatti, in grado dunque di consentire al debitore il fresh start, ossia la sua nuova immissione nel mercato libero da debiti. La legge richiede, però, dei requisiti, tra cui si menzionano l’aver cooperato allo svolgimento della procedura, il non aver beneficiato di altra esdebitazione negli otto anni precedenti alla domanda e il non aver compiuto atti in frode ai creditori nei cinque anni precedenti l’apertura della liquidazione.

I punti critici e gli sviluppi futuri

Da queste poche note s’intravede già la complessità dei percorsi per uscire dalla crisi. Ciò, unito alla tardività con cui è stato attuato il dettato legislativo, hanno trasformato uno strumento pensato per essere semplice e agevole per il consumatore in un mezzo farraginoso e costoso, tanto che le procedure ad oggi avviate sono veramente poche. Una persona fisica gravata da molti debiti, magari proprietaria di un solo immobile, non può sacrificare i propri mezzi – già inidonei a soddisfare integralmente i creditori – per sostenere i costi di una procedura che coinvolge inevitabilmente numerosi professionisti. Tanto varrebbe attendere gli esiti di un’eventuale esecuzione forzata.

Inoltre, vi sono criticità relative al ridotto campo di ammissibilità dell’esdebitazione, all’impossibilità di falcidiare il credito i.v.a. dello Stato e all’alta percentuale dei creditori necessari per l’approvazione dell’accordo.

Di queste ultime considerazioni ha tenuto conto la Commissione Rordorf, nell’elaborazione di un disegno di riforma organico delle procedure concorsuali, approvato come disegno di legge delega dal Consiglio dei Ministri nel marzo 2016. Tra le altre cose, si prevede un allargamento della platea di soggetti ammessi all’esdebitazione, prevedendo che anche le persone giuridiche possano beneficiarvi; inoltre, sono previste esclusioni e possibilità di conversione delle procedure in quella liquidatoria in caso di frode o inadempimento; viene poi riconosciuta l’iniziativa per l’apertura delle procedure liquidatorie, pure in presenza di procedure esecutive individuali, anche ai creditori e al pubblico ministero, se l’insolvenza riguarda un soggetto imprenditore.

Difficile che il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento delle crisi d’impresa possa vedere la luce entro la fine della corrente legislatura. Anche perché uno stop potrebbe essere utile per varare una disciplina già in linea con le nuove prospettive europee. Infatti, sarà discussa entro la fine del corrente mese dai competenti organi dell’Unione Europea la proposta di direttiva, presentata lo scorso novembre, avente ad oggetto standard minimi da osservare negli Stati membri in materia di ristrutturazione e seconda possibilità (c.d. fresh start) per gli imprenditori in crisi. Si tratta di un provvedimento di cui il legislatore delegato italiano dovrà inevitabilmente tenere conto.