Due recenti decisioni in materia di locazione

Il contratto di locazione, disciplinato dagli artt. 1571 e ss. del Cod. civ., e dalle Leggi n. 392/1978, n. 431/1998 e n. 158/2008, è indubbiamente uno dei tipi più diffusi nella realtà economica di tutti i giorni. Sebbene le disposizioni normative che disciplinano la locazione siano molte, la casistica che ne scaturisce è talmente varia che l’interpretazione della giurisprudenza diviene uno strumento inevitabile e prezioso per risolvere molte problematiche concrete. Di seguito proponiamo due sentenze che affermano concetti da tenere in grande considerazione nello svolgimento di un rapporto locatizio.

Il contratto verbale e il canone di locazione in nero

Tra le obbligazioni principali del conduttore, l’art. 1587 Cod. civ. individua quella di pagare il corrispettivo al locatore nei termini convenuti. Al tempo stesso è previsto un requisito di forma scritta nelle locazioni che hanno ad oggetto immobili ad uso abitativo, ai sensi dell’art. 1 della L. n. 431/1998. Che succede quando il canone non è interamente previsto all’interno del contratto, perché magari al locatore è sembrato fiscalmente conveniente intascarne una parte in nero, o perché – sempre in nero – il canone è stato aumentato in seguito? Questa eccedenza potrebbe essere oggetto di un contratto verbale; anche la locazione di una porzione di un immobile, però, potrebbe essere pattuita verbalmente – e dunque con un canone separato – sempre per ragioni fiscali.

Con sentenza n. 20395/2016, la Sezione III della Corte di Cassazione si è pronunciata sul punto, stabilendo che il conduttore non è tenuto a pagare la parte di canone che eccede quello pattuito nel contratto scritto, e dunque oggetto di un mero accordo verbale.

La causa era nata con l’intimazione di sfratto per morosità in relazione ad una parte di compendio immobiliare che il locatore riteneva aver concesso al conduttore in seguito ad accordo verbale. Il medesimo accordo verbale prevedeva il canone di locazione che l’inquilino aveva iniziato a non pagare. Quest’ultimo, opponendosi allo sfratto, aveva chiesto la restituzione dei canoni pagati fino al momento dell’avvenuta morosità in forza di quel contratto verbale. In altre parole, una parte di denaro era stata pagata in nero fino a una certa data; da quando l’inquilino ha smesso di pagare il locatore ha avanzato pretese sulla base di un presunto accordo verbale.

La Corte di Cassazione ha confermato le sentenze di primo grado e di appello che hanno dato torto al padrone di casa, obbligandolo alla restituzione di quanto percepito al di fuori degli accordi contenuti nel contratto scritto.

Per dovere di completezza, bisogna sottolineare che il principio stabilito dalla Corte aveva già trovato accoglimento nella Legge n. 208/2015 (Legge di Stabilità 2016), la quale con l’art. 1, comma 59, aveva sostituito l’art. 13 della L. n. 431/1998, stabilendo la nullità di ogni patto volto a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato. In questi casi, la Legge accorda al conduttore la possibilità di agire in giudizio nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell’immobile, al fine di chiedere la restituzione delle somme versate in eccedenza.

La normativa non poteva essere, ratione temporis, presa in considerazione dalla Corte di Cassazione nella sentenza sopra citata, posto che il ricorso era del 2013. Appare evidente, però, la direzione intrapresa da legislatore e giurisprudenza nei confronti di accordi volti ad eludere la normativa fiscale.

I vizi dell’immobile e la riduzione del canone

Altro punto fermo in giurisprudenza riguarda i rimedi per il conduttore che lamenti vizi della cosa tali da diminuirne in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito. La normativa codicistica prevede, all’art. 1578 Cod. civ., che l’inquilino possa chiedere la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo.

Il Tribunale di Milano, Sez. XIII, con sentenza n. 12427/2016 ha ribadito come la possibilità di riduzione del canone di locazione debba essere oggetto di domanda giudiziale e non costituisca un diritto del conduttore di fronte a gravi vizi che diminuiscano il godimento del bene locato, anche se derivano da fatti del locatore. La questione riguardava una società che aveva proposto opposizione a decreto ingiuntivo nei confronti del locatore, ritenendo parte dei canoni non dovuti a causa di infiltrazioni d’acqua e allagamenti che rendevano inservibile parte del capannone detenuto in locazione.

Il Tribunale, sposando una tesi consolidata in giurisprudenza (si veda ad es. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 19897/2016), ha affermato che l’auto-riduzione del canone di locazione costituisce sempre atto arbitrario e illegittimo, che rende il conduttore inadempiente, anche nel caso in cui egli abbia tenuto il proprio comportamento per applicare l’art. 1578 Cod. civ. Infatti, la riduzione totale o parziale del pagamento del canone è legittima solo quando i vizi della cosa locata comportino un impedimento totale al godimento del bene locato da parte del conduttore, e quindi sia venuta integralmente meno la controprestazione del locatore.

Del resto, l’esplicita previsione contenuta nell’art. 1578 Cod. civ., che dà la possibilità al conduttore di agire in giudizio, trova la propria ratio nel fatto che solo il giudice viene ritenuto in grado di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti, disponendo nel caso la riduzione del canone.

In ossequio a tali principi, il Tribunale di Milano – pur avendo rinvenuto nell’immobile locato gravi vizi – ha riconosciuto il diritto del conduttore a non pagare i canoni solo per il periodo successivo all’introduzione dell’opposizione a decreto ingiuntivo, e non per quello precedente.

La responsabilità dell’amministratore di s.p.a. privo di deleghe

La sentenza n. 17441/2016 della Sezione I della Corte di Cassazione ci offre l’occasione per esaminare alcuni punti di una materia ampia e complessa, come quella della responsabilità degli amministratori di società per azioni. Si tratta di una disciplina che, in seguito al profondo riassetto operato con la riforma di diritto societario del 2003, manifesta la sua costante attualità, soprattutto nell’ambito della crisi d’impresa.

La vicenda di cui si è occupata la Corte

Una crisi è anche alla base della decisione della Cassazione che qui ci occupa, posto che l’azione nei confronti degli amministratori era stata promossa dal curatore della s.p.a. fallita – legittimato ad agire ai sensi dell’art. 146 L. fall. – che era riuscito ad ottenere sia in primo grado che in appello la condanna di tutti i componenti del Consiglio, fossero essi muniti di deleghe o meno.

La Corte ribalta parzialmente le conclusioni dei giudici di merito, stabilendo che, ai sensi dell’art. 2392 Cod. civ., gli amministratori privi di deleghe – anche detti non operativi – non sono sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di quest’ultimi grazie alla conoscenza di elementi in grado di provocare il loro intervento, in base alla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze.

La Cassazione ritiene che nei precedenti gradi di giudizio i giudici non abbiano tenuto in considerazione l’intervenuta riforma di diritto societario, operata con il D. Lgs. n. 6/2003. In precedenza, infatti, l’art. 2392 Cod. civ. disciplinava la responsabilità degli amministratori basandosi sulla diligenza del mandatario, configurando tale responsabilità anche in caso di omessa vigilanza sull’operato degli altri consiglieri. La giurisprudenza ante-2003 aveva espressamente escluso che la sussistenza di deleghe potesse attenuare la responsabilità degli amministratori non operativi per i danni cagionati alla società, venendo a configurare una vera e propria responsabilità oggettiva.

Il quadro normativo attuale

Nella versione vigente, la norma cardine della responsabilità degli amministratori di s.p.a. – l’art. 2392 Cod. civ. – parla di una responsabilità solidale di tutti gli amministratori che, in violazione dei propri doveri, abbiano causato un danno alla società. La solidarietà viene meno nel caso in cui si sia alla presenza di attribuzioni del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite a uno o più amministratori. Questi rispondono sempre in ragione della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze.

Il secondo comma dell’art. 2392 Cod. civ. stabilisce che “In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. La disposizione richiamata, e cioè l’art. 2381, terzo comma, Cod. civ., a sua volta stabilisce che “Il consiglio di amministrazione […] Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; […] valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”.

La Corte di Cassazione, nella sentenza qui esaminata, va anche oltre, ritenendo implicito il richiamo, nell’art. 2392 Cod civ., all’art. 2381, sesto comma, Cod. civ., in base al quale “Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”.

Dal combinato disposto di queste norme si comprende come, nelle s.p.a., la conoscenza di fatti pregiudizievoli debba passare dalle informazioni date al consiglio che, di conseguenza, ha il dovere di richiederle. Ne consegue che – come riconosciuto da dottrina e giurisprudenza – la responsabilità degli amministratori senza deleghe non discende da una condotta di omessa vigilanza, ma dalla violazione del dovere di agire informati, sulla base di notizie che debbono essere date loro o che comunque essi possono richiedere. Siamo passati da un sistema incentrato sulla colpa in vigilando – che finiva per scadere nella responsabilità oggettiva – ad uno basato sulla semplice colpa.

Non potendo ritenere che l’amministratore non operativo sia un semplice destinatario passivo di informazioni, la sua responsabilità sarà configurabile nel caso in cui egli sia a conoscenza di fatti (c.d. segnali di allarme) tali da giustificare un intervento per ottenere gli elementi necessari ad agire informato.

La natura della responsabilità e le conclusioni della Corte

A queste osservazioni si deve aggiungere quella – preliminare – svolta dalla Cassazione nella sentenza che ci occupa, relativa alla natura contrattuale della responsabilità degli amministratori. Da ciò consegue il corollario in materia di onere della prova, per cui spetta al curatore (o alla società in generale) dedurre la violazione dei doveri da parte degli amministratori e provare sia il danno arrecato che il nesso di causalità tra condotta e danno. Viceversa, è onere dell’amministratore dare prova della non imputabilità a sé del fatto dannoso, dimostrando l’osservanza dei doveri e l’adempimento degli obblighi a lui imposti.

La responsabilità che sorge in violazione del dovere di agire informati e il riparto dell’onere della prova così come sopra esposto, hanno portato la Cassazione a rinviare la causa alla Corte d’Appello. Infatti, occorreva “che la Corte d’appello indagasse sulla base degli addebiti loro rivolti dal fallimento” in base al riparto dell’onere della prova, quali fossero le informazioni” che gli amministratori privi di deleghe “avevano effettivamente a disposizione e se vi fossero elementi tali da richiamare la loro attenzione, tenuto conto delle informazioni loro fornite e della apparente plausibilità di esse, sì da verificare se la condotta di inerzia, che la Corte d’appello risulta aver loro addossato nella sua mera oggettività, fosse invece connotata da colpa”.

(Ancora) sull’annosa questione della colpa medica

Abbiamo affrontato in occasione della nostra prima newsletter il tema del diritto alla salute e della responsabilità civile del medico, con particolare attenzione al dibattito che l’art. 3 della Legge Balduzzi (L. n. 182/2012) ha sollevato in merito alla natura contrattuale o extra-contrattuale della responsabilità del medico.

L’interpretazione che avevamo individuato come prevalente ha trovato successiva conferma in varie pronunce della giurisprudenza di merito (ad es., Trib. Palermo 22.08.2016: “la responsabilità del medico ospedaliero, anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 189/2012, è da qualificarsi come contrattuale).

Nell’attesa dell’approvazione del disegno di Legge Gelli – Bianco, di cui rendiamo conto anche questo mese tra le news in breve, destinato a rivoluzionare il sistema di responsabilità del medico, ne approfittiamo per chiarire alcuni nodi centrali di questo argomento.

L’importanza della perizia

Rappresenta certamente un tema particolarmente sentito quello della responsabilità del medico nell’adempimento delle obbligazioni inerenti la sua attività professionale.

Riteniamo che sia ormai un dato di comune esperienza in ciascun fruitore di prestazioni mediche che il tipo di diligenza ed attenzione necessaria abbia una natura non generica (del cd. buon padre di famiglia), bensì qualificata in conformità alla natura dell’attività esercitata: tale forma di diligenza qualificata è la perizia, intesa come adeguata conoscenza ed applicazione dell’insieme delle regole tecniche proprie dell’arte medica, sia sotto il profilo generale del rispetto delle regole comune a tutti i rami della professione, sia di quelli più propriamente attinenti al settore specifico di riferimento, per individuare i quali si dovrà tenere conto dei continui aggiornamenti della scienza medica.

Incorrerà perciò in colpa medica l’esercente una professione sanitaria che non rispetti, oltre ai generali doveri di diligenza e prudenza, i doveri di perizia nei termini sopra tratteggiati. In sostanza, ed in estrema sintesi, è richiesto al professionista medico uno standard di diligenza superiore al normale e tale pretesa, stabilita anche dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, è certamente conforme al comune sentire.

Se i principi sopra accennati appaiono chiari, certamente è questione non semplice l’accertamento in concreto dell’esistenza di una responsabilità professionale del medico o del personale sanitario in genere.

Il medico risponde del risultato?

Si tratta di una domanda centrale per il paziente, la cui aspettativa deve tuttavia essere bilanciata con le difficoltà connaturate all’attività in esame.

Aldilà della questione circa la natura di tale responsabilità contrattuale o extra-contrattuale affrontata nella newsletter del giugno scorso (e ricordiamo come anche tale questione abbia importanti ed interessanti riflessi pratici), è certamente rilevante e di persistente attualità la questione circa la collocazione delle obbligazioni dell’esercente l’arte medica fra le obbligazioni di mezzo o di risultato, dovendosi intendere con le prime quelle in cui il debitore è tenuto a svolgere una determinata attività, senza garantire che il creditore consegua il risultato sperato; le seconde, invece, sono quelle in cui il debitore (in questo caso il medico) è tenuto a realizzare proprio un determinato risultato quale esito della propria attività.

Tale diversità è densa di conseguenze sotto il regime probatorio, incombendo nel primo caso (obbligazione di mezzi) al paziente la prova dell’inesatto adempimento per il quale si terrà conto della natura dell’attività esercitata ex art. 1176, secondo comma, Cod. civ., mentre per le obbligazioni di risultato spetterà al paziente un onere probatorio ben inferiore (limitato al titolo dell’obbligazione).

Affermare la natura di obbligazione di risultato per una prestazione quale quella medica, che richiede in genere la risoluzione di problemi di particolare complessità rappresenta un dato non semplice.

La dicotomia in esame è stata oggetto negli ultimi anni di una profonda revisione interpretativa, avendo inizialmente la giurisprudenza posto in particolare l’accento sulla distinzione fra interventi di facile ed interventi di difficile esecuzione, operando nel primo caso una presunzione di negligente adempimento da parte del sanitario per l’ipotesi di un aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie. In caso invece d’interventi complessi, ricadeva sul paziente l’onere della prova circa l’esistenza di un errore terapeutico.

La posizione della giurisprudenza

L’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13553/2001 ha tuttavia rappresentato un primo superamento di tale orientamento, con lo spostamento dell’onere della prova in capo al sanitario debitore della prestazione medica circa l’avvenuta corretta estinzione dell’obbligazione. Conseguenza di tale affermazione è che grava sul medico l’onere della prova che l’evento dannoso si è verificato a causa di un fattore estraneo privo di collegamento causale con l’intervento sanitario.

Successive pronunce hanno via via affermato che l’ente sanitario ed il medico che ne fa parte sono contrattualmente impegnati al risultato che sia conseguibile in base ai criteri di normale applicazione della scienza medica sino a giungere ad affermare (cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 8826/2007) che si ha mancato raggiungimento del risultato anche in caso di mancato miglioramento delle condizioni del paziente e non soltanto in caso di suo peggioramento. Si tratta della maturazione di un orientamento che rende certamente più difficile la posizione del medico strutturato, scoraggiandone l’iniziativa personale, ma rende sicuramente più tutelato il paziente.

Particolarmente significativa in proposito è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 577/2008, che ha sancito il definitivo tramonto della distinzione fra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, avendo la Corte ritenuto che “in ogni obbligazioni si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile”.

La successiva giurisprudenza di merito non si è tuttavia adagiata su tale indicazione, rimanendo il tema motivo di acceso confronto. Siamo forse lontani da un punto di arrivo definitivo, ammesso che di definitività si possa parlare nel mondo dell’interpretazione giuridica.

In conclusione?

È tuttavia certo che di un punto di arrivo si sente l’esigenza in un settore così delicato: summum ius summa iniuria dicevano i latini. Certamente la sentenza da ultimo richiamata è particolarmente significativa.

In ogni caso, la tematica della responsabilità del medico non si esaurisce certamente con queste brevi ed incomplete note, essendo numerosi gli ulteriori aspetti da valutare: da quale debba essere la valutazione del nesso di causalità a quale sia il contenuto dell’onere di allegazione dei fatti per il paziente, e cioè se il soggetto danneggiato debba spingersi a precisare tutti i particolari dell’intervento e ad individuare i concreti profili di colpa. Vi è inoltre da considerare l’importante tematica del consenso informato, sulla quale ci riserviamo di tornare.

È evidente che l’attuale stato dell’evoluzione giurisprudenziale risente pesantemente dei mutati rapporti in ambito sociale, nei quali l’ambito della relazione appare spesso compresso dall’estrema intensificazione dei processi d’individualizzazione dei diritti. Appare pericolosa una società che, soggetta ad un costante impoverimento, interpreti i conflitti utilizzando come base esclusiva di valutazione i pur sacrosanti diritti individuali senza un’adeguata considerazione dei doveri di solidarietà sociale e di responsabilità nell’utilizzo di forme di protezione collettiva (qual è il sistema sanitario). Siamo consapevoli che tale riflessione coinvolge diversi livelli di responsabilità nel sistema, a monte rispetto al verificarsi dei fenomeni di malasanità e comporti la necessità di un ripensamento – da un lato – delle forme di protezione sociale e – dall’altro – del rispetto da parte del cittadino fruitore dei servizi, dei doveri di partecipazione al buon funzionamento del sistema (fermo rimanendo che la tutela sanitaria è diritto della persona). Sono tuttavia riflessioni che l’operatore del diritto non può certamente ignorare, essendo l’interpretazione della norma vivente sensibile alla realtà sociale del momento.

 

Verso la fine dell’anatocismo bancario

Il termine “anatocismo”, di difficile comprensione per il non giurista, indica il fenomeno della capitalizzazione degli interessi. Si tratta del meccanismo per cui gli interessi scaduti su di una somma dovuta sono sommati al capitale sul quale erano stati calcolati (si capitalizzano, appunto) e sono dunque suscettibili di produrre a loro volta interessi. Questa vera e propria produzione d’interessi sugli interessi è un fenomeno col quale si sono spesso scontrati i risparmiatori, che hanno visto crescere sempre di più nel tempo il loro debito verso le banche. Sono queste, infatti, i soggetti che hanno spesso applicato capitalizzazioni (anche trimestrali) degli interessi su somme concesse a mutuo o sugli scoperti di conto corrente. Oltre ad essere identificato da una parola complessa, l’anatocismo è anche un istituto che, a causa della disciplina giuridica che lo ha caratterizzato, ha provocato numerose incertezze applicative da parte degli operatori del settore e, conseguentemente, un alto contenzioso nei Tribunali.

La notizia dell’estate appena trascorsa è che l’anatocismo sembra essere diventato un istituto giuridico in via di estinzione. Infatti, il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (C.I.C.R.) ha approvato il 3 agosto 2016 la delibera n. 343, che detta le norme regolamentari di attuazione della riforma dell’art. 120 del D.Lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario) operata con il D.L. n. 18/2016, convertito nella Legge n. 49/2016.

Cosa prevede la nuova disciplina?

Tralasciando tutti i dubbi che possono sorgere circa l’applicabilità del nuovo testo dell’art. 120 T.U.B. ai contratti bancari in corso, la disposizione di Legge è abbastanza chiara. Oggetto di modifica, infatti, è stato il secondo comma, che nel testo riformato prevede nei rapporti bancari la medesima periodicità nel calcolo degli interessi creditori e debitori, con periodicità comunque non inferiore ad un anno, nonché l’espresso divieto di anatocismo, eccezion fatta per gli interessi di mora. La delibera C.I.C.R. del 3 agosto 2016, che è chiamata dallo stesso art. 120 T.U.B. ad attuare la previsione di Legge, si pone in questa stessa linea, prevedendo il divieto di capitalizzazione degli interessi, tranne nel caso d’interessi di mora. Al risparmiatore è poi garantito un periodo di trenta giorni prima che gli interessi maturati diventino esigibili. La delibera del C.I.C.R. prevede che dal 1 ottobre 2016 le nuove aperture di credito in c/c, comprese le operazioni di anticipo su crediti e documenti, gli sconfinamenti e i contratti già in essere, dovranno adeguare le proprie clausole alla nuova disciplina normativa dell’art. 120 T.U.B. Sembra, dunque, che si sia messa la parola fine ad una vicenda durata anni.

Ogni rapporto bancario sarà privo di anatocismo?

La riforma semplificherà molto il contenzioso legato alle incertezze applicative della normativa, ma non si può dire che la capitalizzazione degli interessi sparirà da ogni ambito del rapporto banca-cliente. In particolare, abbiamo appena notato che dell’art. 120 T.U.B. riscritto dal D.L. 18/2016 (nonché la delibera n. 343 del C.I.C.R.) ha mantenuto la possibilità di capitalizzazione degli interessi di mora. In concreto ciò significa che l’interesse corrispettivo previsto – ad esempio – nella rata del mutuo, al momento dell’inadempimento del mutuatario si capitalizza, cosicché sull’intero importo (capitale + interesse corrispettivo della rata) dovrà essere calcolato l’interesse di mora dovuto. Come accennato sopra, è questo il fenomeno dell’anatocismo: interessi che producono a loro volta interessi.

Inoltre, circa la previsione contenuta nell’art. 120 T.U.B. che consente al correntista di autorizzare l’addebito degli interessi scaduti sul conto corrente, gli interpreti più attenti hanno ritenuto che in alcuni casi si potrebbe continuare a parlare di anatocismo. Infatti, il secondo comma dell’art. 120 T.U.B. prevede che gli interessi scaduti siano considerati, dal momento dell’addebito, sorte capitale e sottoposti al relativo regime. In questo ambito, in caso di incapienza del fido, vi è chi ritiene che si possa parlare di capitalizzazione, tuttavia legittima perché prevista da una norma di Legge.

Permangono, infine, alcuni dubbi su quale sia la disciplina applicabile ai contratti bancari stipulati tra l’entrata in vigore della Legge di stabilità 2014 (1 gennaio 2014) e quella della riforma del 2016 (15 aprile 2016).

Se la delibera del 3 agosto 2016 è il punto d’arrivo della normativa, e dunque ciò che dal prossimo ottobre disciplinerà l’ambito bancario, è opportuno dare conto dell’evoluzione e delle varie riforme che si sono susseguite negli anni, causando una serie di incertezze che hanno portato ad un significativo incremento del contenzioso. Le stesse incertezze sull’applicazione del nuovo art. 120 T.U.B. ai contratti stipulati tra il 1 gennaio 2014 e il 15 aprile 2016, di cui abbiamo appena dato conto, sono figlie dei contrasti sorti sotto la disciplina previgente.

Vediamo allora di ripercorrere nel modo più breve possibile le tappe dell’evoluzione normativa in materia di anatocismo.

La disciplina codicistica e la sua applicazione fino al 1999.

L’anatocismo è disciplinato dall’art. 1283 Cod. civ., il quale dispone che “In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.”. Come si può notare, la produzione di interessi sugli interessi è ritenuta dalla Legge un caso eccezionale, consentito solo in presenza di un’apposita domanda giudiziale, di un accordo tra le parti successivo alla scadenza degli interessi medesimi o in caso di esistenza di usi contrari.

Proprio con riferimento a questi ultimi, per lungo tempo la giurisprudenza della Cassazione aveva ritenuto che si potessero considerare tali le Norme Bancarie Uniformi predisposte dall’A.B.I. Ne era conseguito di ritenere legittime le prassi in voga nei contratti bancari, che prevedevano una capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori (mentre per quelli creditori la capitalizzazione avveniva con cadenza annuale), in deroga al dettato del Codice civile. In altre parole, in campo bancario l’art. 1283 Cod. civ. non valeva, derogato da quelli che erano ritenuti usi normativi e che andavano inevitabilmente a sfavore del risparmiatore.

Il cambio di prospettiva.

Solo nel 1999, con le sentenze nn. 1096 e 2374, la Corte di Cassazione ha completamente ribaltato l’assunto per cui le Norme Bancarie Uniformi sarebbero usi normativi, in grado quindi di derogare al dettato dell’art. 1283 Cod. civ. Essendo predisposte da un’associazione di categoria (l’A.B.I.), le Norme Bancarie Uniformi non hanno – per la Cassazione – natura di usi normativi ma solo pattizia, nel senso di essere mere proposte di condizioni generali di contratto, indirizzate dall’associazione di categoria ai singoli associati. La conseguenza di questo cambio di prospettiva è stata importantissima: poiché la capitalizzazione trimestrale (cioè l’anatocismo) non si poteva più ritenere basata su di un uso normativo, le clausole contrattuali che la prevedevano sono diventate nulle, non potendo le Norme Bancarie Uniformi derogare l’art. 1283 Cod. civ.

Gli interventi successivi del legislatore.

Le pronunce del 1999 erano in grado di aprire la strada ad un contenzioso bancario potenzialmente illimitato, stante l’enorme numero di contratti pendenti che – da un giorno ad un altro – presentavano un saldo contabile reso potenzialmente illegittimo dal calcolo di interessi anatocistici. Per questo, con il D.Lgs. n. 432/1999 è stata disposta – intervenendo sull’art. 120 del T.U.B. – la validità delle clausole anatocistiche pattuite fino a quel momento, nonché la previsione che, per il futuro, le modalità dell’anatocismo fossero determinate con regolamento del C.I.C.R. Ed ecco che, con la delibera del 9 febbraio 2000, il C.I.C.R. ha stabilito la possibilità per le banche di prevedere una capitalizzazione degli interessi anche infrannuale, purché: sia la medesima per gli interessi a debito e a credito; sia prevista contrattualmente ed approvata per iscritto dal risparmiatore. La delibera stabiliva anche tempi e modi con i quali i contratti pendenti che prevedevano clausole anatocistiche si sarebbero dovuti adeguare alla nuova disciplina.

Tuttavia la Corte costituzionale, con la sentenza n. 425/2000, ha dichiarato incostituzionale per eccesso di delega la norma del D.Lgs. n. 432/1999 che consentiva, in attesa della delibera attuativa del C.I.C.R., una validazione retroattiva e transitoria delle clausole anatocistiche presenti nei vecchi contratti bancari. Ne è conseguito un vero e proprio spartiacque ad opera della delibera C.I.C.R.: prima di essa ai contratti bancari pendenti si doveva applicare l’art. 1283 Cod. civ., per cui tutte le clausole anatocistiche ivi previste dovevano essere ritenute nulle; dopo la delibera, entrata in vigore il 22 aprile 2000, le clausole anatocistiche erano ritenute valide nei termini sopra ricordati e salva la possibilità di adeguamento dei contratti pendenti con modalità e tempi previsti dalla delibera stessa (e non esenti da molti dubbi interpretativi).

La legge di stabilità 2014.

Con lo scopo di stabilire un più ampio divieto di anatocismo in ambito bancario, il legislatore è successivamente intervenuto con la Legge di stabilità 2014 (L. n. 147/2013), modificando ancora l’art. 120 T.U.B. La riforma, nel continuare a demandare alla fonte regolamentare del C.I.C.R. la disciplina specifica delle modalità di produzione degli interessi nelle operazioni bancarie, aveva operato una certa confusione terminologica, pur con lo scopo dichiarato di porre fine al fenomeno dell’anatocismo. Da un lato, infatti, era stata prevista la medesima periodicità nella contabilizzazione e nella liquidazione degli interessi, mentre dall’altro la disposizione continuava a parlare – in modo improprio secondo molti – di capitalizzazione. A ciò si aggiunga che il successivo D.L. n. 91/2014 (Decreto competitività) aveva nuovamente modificato l’art. 120 T.U.B., reintroducendo espressamente la possibilità di capitalizzare gli interessi. Previsione che poi non ha resistito in sede di conversione del Decreto (L. n. 116/2014), all’esito di polemiche politiche che hanno avuto un certo risalto anche sulla stampa nazionale.

A fronte di quella che appariva come la volontà politica di eliminare l’anatocismo bancario, pur a fronte di un testo che continuava a menzionare – seppur impropriamente, a detta degli interpreti – la capitalizzazione degli interessi, rimaneva in vigore una fonte di attuazione regolamentare non aggiornata, e cioè la vecchia delibera C.I.C.R. del 9 febbraio 2000. Da ciò è derivata un’importante divergenza interpretativa tra la giurisprudenza maggioritaria e una parte della dottrina, supportata dal Consiglio Nazionale del Notariato. La giurisprudenza maggioritaria riteneva che la fonte primaria prevalesse e che pertanto ogni capitalizzazione degli interessi successiva all’entrata in vigore della Legge di stabilità 2014 (1 gennaio 2014) fosse da ritenere illegittima. Parte della dottrina, invece, riteneva che, in attesa della nuova delibera C.I.C.R. attuativa dell’art. 120 T.U.B. riformato, la capitalizzazione degli interessi effettuata nel frattempo fosse da ritenere valida ed efficace.

A fronte di questa significativa incertezza, foriera anche di soluzioni contrastanti a seconda dei vari Tribunali chiamati a pronunciarsi sulle clausole anatocistiche dei contratti bancari, la Banca d’Italia aveva proposto uno schema di delibera da sottoporre al C.I.C.R. Le osservazioni in esso contenute sembrano oggi aver trovato accoglimento con il D.L. 18/2016 e con la delibera n. 343 del 3 agosto 2016 che, si spera, riescano a mettere la parola fine ad anni di indecisioni normative ed interpretative.

Le unioni civili e le convivenze

La primavera scorsa, il Parlamento ha approvato la L. n. 76/2016 (c.d. Legge Cirinnà, dal nome della sua relatrice) disciplinante le unioni civili e le convivenze, realizzando quella che alcuni osservatori hanno definito come la più radicale riforma del diritto di famiglia italiano dal 1975. In un unico articolo composto di 69 commi (ormai le Leggi non vengono più scritte bene come un tempo), il recente intervento disciplina da un lato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e dall’altro le convivenze di fatto che possono essere indifferentemente omosessuali o eterosessuali.

Lo scorso 28 luglio, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del D.P.C.M. n. 144/2016, cioè del “Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76”, che fra le altre cose ha previsto l’istituzione del registro provvisorio delle unioni civili presso ciascun Comune, le unioni civili sono divenute (finalmente) realtà nel nostro ordinamento.

Come costituire un’unione civile.

Per la costituzione di un’unione civile due persone maggiorenni dello stesso sesso non devono fare altro che prendere un appuntamento con l’Ufficio di stato civile del proprio Comune, al fine di presentare un’apposita richiesta congiunta; richiesta che, ad esempio, il Comune di Prato prevede su modulistica già predisposta. In seguito alla richiesta, l’Ufficio ha 15 giorni per procedere alle verifiche e alle eventuali rettifiche o integrazioni della documentazione. Dopodiché, come avviene in un matrimonio celebrato con rito civile, nel giorno fissato le parti si presenteranno innanzi all’ufficiale di stato civile per rendere, personalmente e congiuntamente ed alla presenza di due testimoni, la dichiarazione di voler costituire tra loro l’unione civile. Questa dichiarazione, ai sensi del regolamento attuativo della L. n. 76/2016, deve contenere i dati anagrafici delle parti e l’indicazione dell’assenza di cause ostative all’unione (previste ai commi 4 e 5, che a loro volte richiamano le cause ostative al matrimonio).

Ricevuta la dichiarazione, l’ufficiale di stato civile redigerà il verbale, sottoscritto dalle parti e dai testimoni, nel quale è fatta menzione dei principali diritti e doveri derivanti dalla costituzione dell’unione civile. Sempre nella dichiarazione le parti potranno scegliere il regime patrimoniale della separazione dei beni (il comma 13 della L. Cirinnà prevede infatti che la regola sia la comunione dei beni) ed indicare il cognome comune che hanno stabilito di assumere per l’intera durata dell’unione. La parte può anche dichiarare all’ufficiale di stato civile di voler anteporre o posporre il proprio cognome, se diverso, a quello comune (cfr. comma 10).

Una volta resa la dichiarazione, gli uffici anagrafici procederanno all’annotazione nell’atto di nascita e all’aggiornamento della scheda anagrafica degli “uniti civilmente” (è questa, infatti, la terminologia ufficiale prevista dal regolamento attuativo del 28 luglio, che potrà comparire nei documenti in cui è prevista l’indicazione dello stato civile). Nei 15 giorni successivi, l’ufficiale di stato civile procederà alla verifica dell’esattezza delle dichiarazioni rese e successivamente rilascerà il documento attestante la costituzione dell’unione di cui al comma 9 della Legge Cirinnà.

Per quanto riguarda la situazione specifica del Comune di Prato, i costi dell’unione e le modalità di uso delle sale per la sua celebrazione sono i medesimi di quelli di un matrimonio.

Quali diritti e quali doveri per gli uniti civilmente?

Le unioni civili assomigliano molto ad un matrimonio tra persone dello stesso sesso; del resto, proprio in ciò si trova il fondamento dell’avversione nutrita per la c.d. Legge Cirinnà da parte di alcune forze politiche e religiose. Ad esempio, in tutto e per tutto simili al matrimonio sono le cause ostative alla costituzione delle unioni civili e la loro eventuale impugnazione (cfr. commi da 4 a 8). Anche i diritti e i doveri che scaturiscono dall’unione civile sono modellati su quelli nascenti dal matrimonio, seppur con alcune eccezioni. Ad esempio, i commi 11 e 12 sembrano riportare il contenuto degli artt. 143 e 144 c.c., tuttavia omettendo il dovere di fedeltà. Gli uniti civilmente hanno così l’obbligo reciproco alla coabitazione e all’assistenza morale e materiale, ma non quello di fedeltà. Questa scelta del legislatore è piuttosto discutibile, tanto che c’è chi ha sostenuto provocatoriamente che l’impressione sia quella che le coppie eterosessuali non sappiano cosa sia l’unicità del partner.

Circa gli altri aspetti, avendo già accennato al regime patrimoniale, vale la pena segnalare il comma 14, che estende alle unioni civili i provvedimenti di protezione contro gli abusi familiari (di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c.), ed i commi 19, 20 e 21. Il primo rende applicabili alle unioni tra persone dello stesso sesso alcune disposizioni del Codice civile, tra cui quelle sugli alimenti. Il comma 20 contiene una regola interpretativa di carattere antidiscriminatorio, prevedendo che alle parti dell’unione civile si applicano le disposizioni riferite al matrimonio e ai coniugi contenute in leggi speciali, regolamenti, atti amministrativi e in contratti collettivi. Dal richiamo rimangono fuori le norme del Codice civile non espressamente richiamate e quelle contenute nella Legge sull’adozione (L. n. 184/1983). Infine, il comma 21 estende agli uniti civilmente quasi tutti i diritti successori, non richiamando, però, le disposizioni sulla successione testamentaria.

Interessanti, infine, i commi da 22 a 25 che prevedono lo scioglimento dell’unione civile senza passare attraverso l’istituto della separazione, giudiziale o consensuale che sia. In altre parole, qualora ne sussistano i presupposti, gli uniti civilmente possono divorziare subito, seguendo le procedure giudiziali o di negoziazione assistita previste dalla legge.

La disciplina delle convivenze di fatto.

Dal comma 36 in poi, l’art. della L. n. 76/2016 provvede a disciplinare le convivenze di fatto. I conviventi di fatto sono definiti dalla legge come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. La stabilità del rapporto per dare luogo ad una convivenza era stata da tempo analizzata e definita dalla giurisprudenza, che era giunta a fornire alcune tutele anche alla c.d. famiglia di fatto. Interessante notare che la lettera della nuova legge esclude dal suo ambito applicativo le coppie separate ma conviventi (o nuove coppie di cui uno dei due componenti sia separato), dato che la separazione non fa venire meno il vincolo matrimoniale.

Diversamente da ciò che avviene per matrimonio e unioni civili, le convivenze non hanno come presupposto una registrazione ma solo una dichiarazione all’anagrafe (simile a quella di residenza) che ha come finalità solo quella di provare l’esistenza della convivenza, non di costituirla.

La L. n. 76/2016, nei commi da 38 a 49 dell’art. 1, mette nero su bianco i diritti che spettano a ciascun convivente, alcuni dei quali erano stati riconosciuti precedentemente solo grazie all’intervento dei giudici. Così, ad esempio, si prevede che il convivente sia assimilato al coniuge per quanto riguarda la regolamentazione dei colloqui nelle carceri, oppure che ciascun partner abbia diritto di visita, assistenza e accesso alle informazioni personali in caso di ricovero ospedaliero. Si prevede anche la facoltà di designare il proprio partner come rappresentante per l’assunzione di decisioni in materia di salute e per le scelte sulla donazione di organi. Inoltre, sono previsti alcuni diritti relativi alla casa di abitazione: in caso di morte del proprietario della casa di residenza comune, il convivente può continuare ad abitarvi per un periodo che va da 2 a 5 anni, così come è prevista la possibilità di succedere nel contratto di locazione alla morte o recesso del proprio partner che era conduttore. Ancora, la convivenza è titolo di preferenza (al pari dell’appartenenza al nucleo familiare) per l’inserimento nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi popolari. È stato poi introdotto un nuovo art. 230-ter c.c. che disciplina i diritti del convivente nell’impresa del partner, vincendo la resistenza della giurisprudenza che non riteneva possibile l’applicazione analogica alle convivenze di fatto della disciplina dell’impresa familiare. Sono anche previste alcune disposizioni di raccordo in materia di interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno ed è stata stabilita per legge la possibilità di riconoscere al convivente di fatto il risarcimento del danno patito per la morte del compagno/a. Anche in quest’ultimo caso, si tratta dell’affermazione di un principio già raggiunto in giurisprudenza, che non lasciava prive di tutela risarcitoria le convivenze stabili, anche tra persone dello stesso sesso (cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 7128/2013 e Trib. Milano, sent. 12.09.2011). Il comma 65, infine, prevede il diritto agli alimenti in caso di cessazione della convivenza di fatto, per quello dei partner che si trovi in stato di bisogno.

I contratti di convivenza.

L’aspetto più innovativo della c.d. Legge Cirinnà in materia di convivenze risiede senza dubbio nella possibilità per i conviventi di poter disciplinare i reciproci rapporti patrimoniali mediante un contratto (cfr. commi da 50 a 63), avente forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, da un notaio o da un avvocato. Questo dovrà poi essere trasmesso all’anagrafe per la relativa iscrizione. Il contratto di convivenza si pone dunque come strumento per fissare una serie di obblighi reciproci, destinati a organizzare la vita in comune dei conviventi.

Circa il suo contenuto, la Legge è chiara nello stabilire che esso può essere relativo alla residenza, alle modalità di contribuzione della vita in comune e al regime patrimoniale della comunione dei beni. Non possono essere previste condizioni o termini e nulla viene detto sulla possibilità di regolamentare i rapporti riguardanti la cessazione della convivenza. In altre parole, il legislatore ha tipizzato una forma contrattuale che era già emersa nella prassi, al fine di disciplinare rapporti patrimoniali tra soggetti non sposati, spesso anche attraverso l’utilizzo di contratti tipici o socialmente tipici (ad esempio il comodato o il contratto di mantenimento).

Sono inoltre stati previsti casi specifici di nullità insanabile (cfr. comma 57) per i contratti di convivenza e viene stabilito che essi possano sciogliersi per accordo delle parti, recesso unilaterale, matrimonio o unione civile tra i conviventi (o tra un convivente ed un’altra persona) o morte di uno dei due contraenti. Se il contratto di convivenza prevedeva la comunione dei beni, la sua risoluzione comporta che lo scioglimento della comunione seguirà le regole generali previste dal Codice civile. Sono infine previsti obblighi di notifica all’altra parte in ogni caso di scioglimento del contratto per cause unilaterali.

La Corte di Giustizia UE e la falcidia i.v.a. nel concordato

Quello che sembra un argomento riservato agli esperti del settore ha, in realtà, un risvolto pratico fondamentale sulla realtà delle imprese in crisi, che spesso si sono viste addirittura negare l’accesso alla procedura di concordato preventivo. Ciò è avvenuto in base ad un’interpretazione giurisprudenziale in materia di riscossione dell’i.v.a. cui la Sezione II della Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 7 aprile 2016 (Causa C-546/2014), sembrerebbe aver messo fine.

I termini della questione.

All’interno della procedura di concordato preventivo è possibile procedere ad una transazione fiscale, disciplinata dall’art. 182-ter del R.D. 267/1942 (Legge fallimentare), il quale stabilisce che, con riferimento all’i.v.a., si possa prevedere solo una dilazione di pagamento, dunque non un suo versamento parziale. Questa norma è stata interpretata dalla Corte di Cassazione (cfr. da ultimo ordin. n. 2560/2016) come avente natura sostanziale ed applicabile a tutti i concordati preventivi, anche a quelli in cui non veniva stipulata una transazione fiscale. A questa interpretazione hanno finito per aderire anche moltissimi Tribunali, e del resto anche la Corte costituzionale (cfr. sent. n. 225/2014) ne aveva avallato la fondatezza.

Come notato da buona parte della dottrina giuridica e commercialistica, ritenere che non si potesse proporre una domanda di concordato preventivo senza prospettare l’integrale soddisfacimento del credito i.v.a. dello Stato, creava una sorta di super-privilegio o, addirittura, di prededuzione del credito medesimo. In altre parole, si finiva per sovvertire per via giurisprudenziale l’ordine delle cause di prelazione previste dal legislatore, dando la precedenza alla riscossione di un’imposta indiretta a scapito degli altri creditori, anche se privilegiati di grado anteriore (ricordiamo che l’art. 2778 Cod. civ. attribuisce all’i.v.a. privilegio sui mobili collocandola al 19° posto).

Come accennato in apertura, questa interpretazione estensiva dell’art. 182-ter L. fall. Ha portato ad alcune pronunce di inammissibilità delle domande di concordato che non prevedessero un integrale pagamento dell’i.v.a., nonostante fosse presente l’attestazione di un esperto indipendente che tale credito non avrebbe ricevuto un trattamento migliore in caso di fallimento. Oppure, in altri casi, sono state concentrate le risorse residue del debitore a vantaggio dell’erario ed a scapito di altri creditori privilegiati o, addirittura, non è stata nemmeno presentata la domanda di concordato, a scapito delle possibilità di risanamento del debitore.

Perché è intervenuta la Corte di Giustizia.

L’imposta sul valore aggiunto è oggetto di armonizzazione a livello europeo ed è presa in considerazione dalla direttiva 2006/112/Ce del 28.11.2006. I giudici italiani giustificavano le proprie interpretazioni anche (ma non solo) sul fatto che uno Stato membro dell’Unione non possa rinunciare indiscriminatamente al prelievo dell’i.v.a., ma anzi debba garantire il suo prelievo integrale, provvedendo così alla riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione Europea. Infatti, queste ultime comprendono le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili i.v.a. armonizzati, determinati secondo regole europee.

Il Tribunale di Udine, con l’ordinanza del 30.10.2014, ha dubitato di tale interpretazione della normativa europea ed ha operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, chiedendo se sia compatibile con il diritto dell’Unione la normativa nazionale “tale per cui sia ammissibile una proposta di concordato preventivo che preveda, con la liquidazione del patrimonio del debitore, il pagamento soltanto parziale del credito dello Stato relativo all’IVA, qualora non venga utilizzato lo strumento della transazione fiscale e non sia prevedibile per quel credito – sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente e all’esito del controllo formale del Tribunale – un pagamento maggiore in caso di liquidazione fallimentare.”.

La soluzione interpretativa della Corte di Giustizia.

La corte europea ha risolto la questione in maniera piuttosto lineare – quasi manifestando una certa sorpresa, secondo alcuni commentatori – ribaltando l’interpretazione offerta dai giudici nazionali e togliendo loro una delle principali giustificazioni all’inammissibilità della falcidia dell’i.v.a. nelle procedure di concordato preventivo.

Dopo aver affermato che, nell’ambito della disciplina europea dell’i.v.a., gli Stati membri hanno piena libertà di regolazione, limitata solo dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione europea e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, la Corte ha analizzato la disciplina del concordato preventivo, ritenendo che essa preveda determinate garanzie per il recupero dei crediti privilegiati, tra cui quello i.v.a. Infatti, in primo luogo, il pagamento parziale di un credito privilegiato è ammesso solo se un esperto indipendente attesta che tale credito non riceverebbe un trattamento migliore in caso di fallimento (come a dire che lo Stato quel credito non lo potrebbe realizzare in misura maggiore rispetto a quanto offerto). In secondo luogo, il creditore che nella proposta non è integralmente soddisfatto è ammesso al voto, potendo esprimere volontà contraria all’approvazione del concordato. Infine, sono previste le opposizioni, tra cui quella successiva all’omologa, così da poter sottoporre la proposta concordataria all’esame di un giudice.

Ecco che, da questa semplice analisi, la Corte di Giustizia rileva come la normativa italiana non comporti affatto una rinuncia indiscriminata alla riscossione i.v.a. in grado di minare le risorse dell’Unione, come sosteneva in blocco la giurisprudenza nazionale.

L’esito di questa decisione è stato salutato con favore dai primi commentatori, che del resto hanno da sempre rilevato come non fosse in contrasto con la normativa europea la riscossione parziale dell’i.v.a. che sia dipesa da un patrimonio insufficiente del debitore. Di conseguenza, le implicazioni di un pagamento parziale si potranno avere in sede di transazione fiscale (con sua impossibilità di utilizzo in caso di falcidia i.v.a.) e di voto nel concordato, momento in cui lo Stato potrà far valere il proprio dissenso, dovendo comunque sottostare alla decisione della maggioranza dei creditori. Come da più parti notato – e sottolineato dalla Corte di Giustizia – a fronte di risorse limitate ed insufficienti del debitore, una soddisfazione parziale del credito i.v.a. (purché con la medesima percentuale che avrebbe ricevuto in caso di fallimento), considerando la posizione occupata dal medesimo nell’ordine dei privilegi stabilito dalla Legge, non può porre alcun problema di effettività della riscossione; del resto, a fronte di un patrimonio limitato, lo Stato non potrebbe riscuotere altro, né in sede concordataria né in altre procedure. Insomma, la disciplina del concordato preventivo non prevede alcuna rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’i.v.a. – come temuto dalla Cassazione – cosicché nessun argomento di diritto sovranazionale potrà essere invocato per impedire la falcidia dell’imposta nelle proposte concordatarie.

Il costo della giustizia

Il tema del costo di una causa è certamente una questione rilevante per il cittadino che sia costretto a rivolgersi alla giustizia per la tutela di un proprio diritto.

Il “servizio giustizia” rappresenta uno dei servizi fondamentali di uno Stato democratico e trova adeguata tutela nella nostra Costituzione. In quanto tale, vi sarebbe l’aspettativa che lo Stato possa assicurare il funzionamento a costo zero per i suoi utenti. Tuttavia, la situazione anche delle più evolute democrazie occidentali è tale per cui la gratuità del servizio è del tutto estranea agli attuali orizzonti, tanto da far dichiarare a più di un commentatore che la giustizia è ormai “solo per ricchi”. In realtà, l’ordinamento del nostro paese conosce alcune forme di modesta tutela per le persone in maggior difficoltà: si pensi alla normativa sul gratuito patrocinio (contenuta nel D.P.R. n. 115/2002 sulle spese di giustizia).

Ma procediamo con ordine, nel tentativo di spiegare – seppur brevemente – i principali caratteri dei costi del processo civile in Italia, e quindi cosa si debba attendere il cittadino che, costretto da un’ingiustizia altrui, si debba rivolgere all’assistenza di un avvocato per intraprendere una causa (non ci stancheremo mai di ripetere che un’assistenza preventiva, chiedendo consiglio ad un avvocato, potrebbe evitare tanti contenziosi).

Tanto per cominciare, il costo che richiede lo Stato non rappresenta la totalità delle spese, essendo da tenere presente anche il costo del professionista al quale ci si rivolge per l’assistenza. Il costo di un giudizio è infatti rappresentato dagli esborsi, che hanno il carattere di veri e propri tributi, quali il contributo unificato per l’iscrizione a ruolo, l’imposta di registro, o per prestazioni espletate da funzionari statali (cancellieri, ufficiali giudiziari) ed i compensi necessari per l’attività di soggetti privati (difensori, consulenti tecnici). I primi (i tributi) costituiscono il corrispettivo chiesto dallo Stato per la prestazione del servizio giustizia.

La disciplina prevista nel Codice di procedura civile.

Il principio generale nel nostro ordinamento è che il costo, in via di massima, non può andare a danno della parte vittoriosa; della parte, cioè, che per vedere riconosciuto il proprio diritto sia stata costretta a ricorrere alle vie giudiziarie. Si tratta di un principio coerente con il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione.

La disciplina delle spese processuali è prevista dal Codice di procedura civile, che all’art. 90, ormai abrogato, prevedeva innanzitutto che ciascuna parte dovesse provvedere nel corso del processo “alle spese degli atti che compie e di quelli che chiede e deve anticiparle”.

Il successivo art. 91 c.p.c. prevede che il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altre parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Addirittura, se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta. Insomma, è sancito il principio “chi perde paga”, e chi anche vince ma ha fatto lavorare i tribunali perché non ha accettato una proposta conciliativa che si è rivelata identica, nei contenuti, alla sentenza, paga lo stesso. Si tratta di una regola tesa a sanzionare l’abuso dello strumento processuale. Al tempo stesso, la previsione di una condanna alle spese nel caso di rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa è ispirata al dichiarato intento di favorire lo spirito transattivo e di rafforzare le sanzioni processuali, nell’ottica di una più incisiva valutazione del comportamento delle parti: si tratta di una disposizione fortemente innovatrice.

In tema di spese processuali, soltanto la parte completamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno in minima quota, al pagamento delle spese stesse. Qualora, invece, ricorra la soccombenza reciproca (ma anche in caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti: art. 92 c.p.c) è rimesso all’apprezzamento del giudice, che deve indicare espressamente le ragioni alla base della sua scelta, decidere se ed in quale misura debba farsi luogo a compensazione. In altre parole, se nessuna delle parti ha completamente ragione, può darsi che entrambe debbano pagare.

Il principio per cui le spese seguono la soccombenza ha conosciuto recenti eccezioni, operanti un correttivo per evitare che si giunga a risultati iniqui in favore della parte vittoriosa.

Così, l’art. 92 c.p.c. prevede che il giudice, nel pronunciare la condanna alle spese, può – con ampia discrezionalità – escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; può, inoltre, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88 c.p.c. (si tratta del dovere delle parti e dei difensori di comportarsi con lealtà e probità in giudizio) essa ha causato all’altra parte.

Per spese eccessive s’intendono gli esborsi che, pur dipendenti da atti necessari per le finalità difensive, risultano sproporzionati ed esorbitanti rispetto al loro fine. L’altra deroga, invece, ossia la condanna alle spese (anche non ripetibili) che una parte ha causato all’altra per trasgressione del dovere di lealtà e probità, sanziona un contegno processuale illecito serbato dalla parte con dolo o colpa. In questo caso, quindi, destinataria della condanna può essere anche la parte vittoriosa in giudizio. Potendo avere ad oggetto anche esborsi relativi a singoli atti conseguenti alla slealtà ed improbità oppure a spese dell’intero giudizio, la finalità sanzionatoria di questa disposizione è evidente.

La condanna per lite temeraria.

Particolarmente interessante, in un momento storico in cui il ricorso ai tribunali sta diventando un costo sempre più da evitare per lo Stato, che a sua volta finisce per scaricarlo sui cittadini con imposte e tasse varie, è la possibilità per il giudice di condannare la parte soccombente per responsabilità aggravata – o per lite temeraria, come ormai si dice nel linguaggio comune (art. 96 c.p.c.).

In sostanza, se una parte perde una causa che ha iniziato – o nella quale ha resistito in giudizio – con mala fede o colpa grave, l’altra può chiedere che, oltre alle spese, essa sia condannata al risarcimento dei danni, che saranno liquidati dal giudice nella sentenza. Si tratta di una vera e propria misura risarcitoria e non sanzionatoria, posto che il vittorioso è stato costretto a subire un giudizio per colpa dell’atteggiamento della controparte, che ha addotto argomenti a suo favore manifestamente infondati; giudizio che può aver provocato un danno da risarcire.

Per mala fede s’intende, infatti, la coscienza dell’infondatezza della domanda proposta in giudizio, mentre la colpa grave è un’imprudenza o trascuratezza elevata per il mancato impiego di un minimo di diligenza, sufficiente a far avvertire l’ingiustizia della pretesa avanzata in causa. La Corte di Cassazione ha ritenuto che tali elementi possano essere desunti anche da nozioni di comune esperienza applicate alle condotte processuali dilatorie o defatigatorie della parte, le quali possono provocare di per sè oltre a danni patrimoniali anche danni di natura psicologica.

Il medesimo articolo stabilisce, al terzo comma, che, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese il giudice possa, anche d’ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento a favore della vittoriosa di una somma equitativamente determinata. Si tratta di una previsione diversa dal risarcimento per lite temeraria, totalmente disancorata da una richiesta di parte e avente natura, secondo parte dei commentatori, di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzione del sistema giustizia (su questa lunghezza d’onda anche il Tribunale di Prato nella sentenza del 6.11.2009). In ogni caso, pare che i presupposti in base ai quali il giudice possa prevedere questa condanna siano i medesimi della lite temeraria.

Chi paga l’avvocato?

Sembra una domanda retorica, ma non lo è affatto. Abbiamo detto, in via di prima approssimazione, che: chi perde deve pagare le spese del giudizio della parte vittoriosa; se nessuna delle due parti vince del tutto (ognuna ha ragione su un punto, ad esempio) il giudice può compensare le spese (quindi far pagare un po’ all’una ed un po’ all’altra, o decidere che ognuno si paghi le sue spese); anche chi vince non sempre ha diritto a vedersi pagate dall’avversario ogni genere di spese; chi perde può essere condannato a risarcire il danno per lite temeraria o a pagare una somma stabilita dal giudice.

Come già detto, l’art. 91 c.p.c. prevede che oltre alle spese il soccombente debba pagare gli onorari di difesa, dunque il compenso professionale del difensore di controparte (ma ricordiamo che anche i compensi dei consulenti tecnici rientrano nel concetto di spese processuali).

Il compenso è determinato in base ad una serie di parametri che hanno sostituito le vecchie tariffe, oggi previsti dal D.M. n. 55/2014. In sentenza, il giudice liquida anche il compenso del difensore e lo pone a carico della parte condannata a pagare le spese processuali. Questo, però, non significa che la parte soccombente debba dare direttamente i soldi all’avvocato della controparte.

La condanna, infatti, è pronunciata a favore della parte vittoriosa, la quale avrà diritto ad ottenere dall’altra il pagamento di tutte le spese, comprese le somme liquidate dal giudice a titolo di compenso professionale. Sarà questa che poi dovrà versare le somme al proprio difensore. Da sottolineare come al compenso liquidato in sentenza, e in generale a quello previsto nel D.M. n. 55/2014, vada aggiunto il rimborso per spese forfettarie, pari al 15% del compenso totale, nonché l’i.v.a. e 4% di contributo per la Cassa Forense.

L’importo così determinato dovrà dunque essere pagato dal cliente al proprio legale. In fondo, la parte vittoriosa ha riscosso denaro che, per quell’importo, spetta al suo difensore.

Solo in un caso, è prevista la possibilità per il soccombente di pagare direttamente il legale di controparte, ossia quando quest’ultimo ne abbia fatta espressa richiesta in sede di precisazione delle conclusioni. Ai sensi dell’art. 93 c.p.c., infatti, il giudice può autorizzare quella che si chiama distrazione in favore del difensore di onorari non riscossi e di spese che dichiara di aver anticipato.

Tuttavia, poiché non è raro che l’avvocato riscuota alcune somme per conto del proprio cliente, tanto più se vittorioso in giudizio, il Codice deontologico forense si preoccupa di dettare norme che impediscano eventuali abusi. Così, l’avvocato non deve subordinare al riconoscimento di propri diritti, o all’esecuzione di prestazioni particolari da parte del cliente, il versamento a questi delle somme riscosse per suo conto, né subordinare l’esecuzione di propri adempimenti professionali al riconoscimento del diritto a trattenere parte delle somme riscosse per conto del cliente o della parte assistita (cfr. art. 29). Ancora, non deve trattenere oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto della parte assistita, senza il consenso di quest’ultima (cfr. art. 30). Tuttavia, l’art. 31 prevede i casi in cui l’avvocato possa trattenere somme riscosse per conto del cliente, a titolo di compensazione. Si tratta del caso in cui l’avvocato abbia sostenuto anticipazioni di spese (con obbligo di avvisare il cliente della compensazione) o quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e non ancora corrisposte dal cliente, oppure ancora quando abbia già formulato una richiesta di pagamento espressamente accettata dal cliente.

Ricordiamo, infine, che l’art. 13 della Legge professionale forense (L. n. 247/2012) obbliga l’avvocato, qualora il cliente ne faccia richiesta, a fornire preventivo scritto nel quale siano distinte le spese, gli oneri e il compenso professionale per la causa che si andrà ad affrontare.

Tra diritto all’oblio e cyberbullismo

Nelle ultime settimane il web, e i social network in particolare, sono finiti sotto accusa in seguito a tragici fatti di cronaca, all’esito dei quali si è rinforzato il dibattito sulle possibili misure da prendere nei confronti di violazioni della riservatezza, della dignità e della reputazione che siano compiute tramite internet.

Il problema è certamente complesso ed ha a che fare con cultura ed educazione; le misure repressive o censorie avranno sempre il fiato corto, finché mancherà la consapevolezza che anche quella vista attraverso un social network è una persona, e che non c’è nulla di virtuale nel proprio comportamento su internet e negli effetti che questo può avere.

Ciò detto, cogliamo l’occasione per fare il punto sulla tutela dei diritti della personalità sul web attualmente prevista dal nostro ordinamento, peraltro nei giorni in cui è stato approvato alla Camera il discusso disegno di legge sul cyberbullismo, ora nuovamente all’esame del Senato. Nella consapevolezza che, come ha dichiarato il Garante per la protezione dei dati personali Antonello Soro, in una recente intervista al quotidiano La Stampa: “Possiamo parlare della maggiore o minore efficacia degli strumenti, della lentezza dei giudici o degli organi di controllo, però bisogna anche essere onesti: la tutela di una persona che finisce in un meccanismo del genere è praticamente impossibile”.

Il diritto all’oblio e i valori in gioco.

Con questo termine ci si riferisce alla possibilità di ottenere, in certi casi, la deindicizzazione e la cancellazione dei propri dati personali da internet, al fine di ottenere una rappresentazione corretta e attuale della propria personalità.

Il diritto all’oblio si è sviluppato in una dimensione sovranazionale, nell’ambito di quello che può essere definito come diritto all’informazione in rete e che, per sua natura, impone difficili bilanciamenti con diritti della personalità come riservatezza, reputazione, onore e tutela dei propri dati. Suo presupposto è che tra i diritti della personalità vi sia anche quello all’identità personale, che comprende a sua volta l’identità digitale.

Frutto di elaborazione della giurisprudenza, sia di legittimità che costituzionale, il diritto all’identità personale ha confini incerti, ma può essere definito in via di prima approssimazione come diritto del soggetto ad essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità ed a non vedere modificato od offuscato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, o professionale. In altre parole – pur se in senso più ampio – è il diritto ad essere sé stessi. Come corollario, l’identità digitale può essere definita come quella che il soggetto impiega nelle attività informatiche e nelle numerose applicazioni di internet.

Nessun dubbio sussiste circa la possibile tutela risarcitoria nei confronti di condotte che ledano la propria identità personale (anche digitale) mediante la pubblicazione di contenuti in rete. A tal proposito si può citare la sentenza del 25 ottobre 2011 della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (cause riunite C-509/09 e C-161/10), la quale ha riconosciuto tutela risarcitoria, tenendo presente che i contenuti internet possono essere consultati da un numero indefinito di persone, ovunque nel mondo e al di fuori del controllo del loro emittente. Per questo la Corte europea ha stabilito che il danneggiato può adire alternativamente i giudici dello Stato membro del luogo di stabilimento del soggetto che ha emesso i contenuti o quelli dello Stato membro in cui si trova il proprio centro d’interessi.

La tutela specifica, ossia la cancellazione dei contenuti da internet, tocca profili più complessi perché richiede un bilanciamento tra diritto all’identità personale, diritto all’oblio e libertà di manifestazione del pensiero (sovente nelle forme del diritto di cronaca). Ad esempio, alcuni fatti di cronaca che vedano coinvolti personaggi noti potrebbero assumere il rango di fatti storici, cosicché il loro mantenimento in rete sarebbe giustificato. Anche in questi casi, però, si deve comunque dar luogo a contestualizzazione ed aggiornamento dei dati, potendo arrivare, se del caso, anche alla loro cancellazione, al fine di tutelare non solo l’identità sociale del soggetto coinvolto, ma anche la completezza dell’informazione per i cittadini (cfr. ad esempio Cass. civ., Sez. III, sent. n. 5525/2012). Da notare come il diritto all’identità personale possa essere leso anche senza ingiurie o diffamazione: è il caso dell’attrice famosa che ha chiesto ed ottenuto i danni per la pubblicazione da parte di un quotidiano della notizia (falsa) della sua sottoposizione ad interventi di chirurgia estetica. In ogni caso, va ricordato che il diritto all’oblio non può trovare applicazione quando – sempre in tema di pubblicazione di notizie – il dato mantiene rilevanza storica o scientifica, pur se non più strettamente attuale, come ha avuto modo di rilevare anche il Garante della privacy in alcuni provvedimenti (si pensi ad esempio alla condanna penale lontana nel tempo di un candidato ad una carica elettiva).

Come si può notare, gli interessi in gioco in quest’ambito del diritto sono rilevantissimi e al tempo stesso mancano espresse previsioni di legge; la normativa a tutela della privacy, infatti, se è vero che consente la revoca del consenso al trattamento dei dati personali, difficilmente può essere applicata a vecchie notizie contenute in giganteschi archivi web.

L’intervento della Corte di Giustizia UE nei confronti di Google.

Importanti segnali arrivano, però, dalla giurisprudenza europea. Il caso più significativo è stato deciso nella sentenza del 13 maggio 2014 dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Causa C-131/12), all’esito di una controversia che ha visto contrapposti un cittadino spagnolo e Google Spain. La vicenda rende l’idea dei diritti in gioco: il cittadino aveva chiesto all’autorità spagnola per la protezione dei dati personali la rimozione da un sito web e poi da Google di un articolo di giornale che lo riguardava e che non era più attuale. Il garante della privacy spagnolo aveva ordinato a Google di rimuovere i dati dai risultati generati attraverso il motore di ricerca e di impedirne l’accesso per il futuro, ma il colosso informatico si era rifiutato, adducendo che l’intervento dell’autorità spagnola rappresentasse un’indebita compressione della libertà di espressione dei gestori di siti internet. Il caso era così finito davanti alla Corte Suprema spagnola che a sua volta ha interpellato in via pregiudiziale la Corte di Giustizia UE. Quest’ultima, nell’interpretare la direttiva 95/46/CE sulla protezione dei dati personali, ha concluso che “l’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come «trattamento di dati personali»” per la normativa sovranazionale. Determinando le finalità e gli strumenti del trattamento, il gestore del motore di ricerca è inevitabilmente il responsabile del trattamento medesimo, ai sensi della normativa europea.

Di conseguenza, è il gestore del motore di ricerca che deve garantire il rispetto delle prescrizioni europee in materia di privacy, stante l’importanza che la sua attività ha sulla vita privata delle persone. Del resto, osserva la Corte “l’organizzazione e l’aggregazione delle informazioni pubblicate su Internet, realizzate dai motori di ricerca allo scopo di facilitare ai loro utenti l’accesso a dette informazioni, possono avere come effetto che tali utenti, quando la loro ricerca viene effettuata a partire dal nome di una persona fisica, ottengono attraverso l’elenco di risultati una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a questa persona reperibili su Internet, che consente loro di stabilire un profilo più o meno dettagliato di quest’ultima.”. La conseguenza, per la Corte, è che ciascun soggetto può chiedere direttamente al gestore del motore di ricerca la rimozione dei propri dati; se questo, valutata la fondatezza della richiesta, si rifiuta, il soggetto potrà adire l’autorità di controllo nazionale o quella giudiziaria. Queste potranno ordinare al motore di ricerca la cancellazionedall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita.”.

La rimozione dei dati, però, non può avvenire in modo indiscriminato solo perché il soggetto ha ritenuto che da essi gli derivi un pregiudizio. Infatti, ha stabilito la Corte, i diritti della personalità dell’individuo prevalgono sugli interessi economici del motore di ricerca e su quelli del pubblico alla conoscibilità della notizia solo laddove non si possa dire “per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi.”.

La tutela in Italia.

Pur in assenza di una normativa definita, la sentenza della Corte UE ha aperto la strada ad una tutela effettiva degli interessati. Lo scorso anno, infatti, l’Autorità garante della privacy ha deciso una cinquantina di ricorsi di soggetti che avevano visto la loro richiesta di de-indicizzazione respinta da Google. Ovviamente non tutte sono state accolte: il bilanciamento tra diritto all’identità personale e diritto di cronaca porta all’ordine di cancellazione dei dati solo se i link riguardano fatti ritenuti non più di interesse pubblico e lesivi della sfera privata.

Le richieste di rimozione dei dati spesso sono strettamente legate a vicende giudiziarie a cui il soggetto coinvolto non vuole più essere collegato. È questo, ad esempio, il caso deciso dalla Sezione I del Tribunale di Roma con la sentenza del 3.12.2015. Facendo applicazione dei principi emersi in sede europea, il Tribunale ha respinto la domanda dell’interessato, ritenendo che il suo diritto all’oblio debba soccombere innanzi al persistente interesse pubblico per una vicenda giudiziaria recente. Come è stato osservato, il diritto all’oblio non può servire a ripulire il profilo pubblico di un soggetto in vista, perché in questi casi prevale il diritto all’informazione.

Inoltre, la Sezione I della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13161/2016, è intervenuta sul diritto all’oblio precisandone i confini in presenza di richieste di risarcimento del danno da soggetti che asseriscono di aver subito un illecito trattamento di dati personali su internet. Nel caso deciso dalla Cassazione, i soggetti interessati, in seguito a diffida inviata ad una testata giornalistica online per la rimozione del riferimento ad una risalente vicenda giudiziaria, avevano ottenuto la condanna del direttore e dell’editore. La Corte conferma la ricostruzione del giudice di merito, ritenendo che “l’illecito trattamento di dati personali è stato dal Tribunale specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione dell’articolo di cronaca sul fatto accaduto […] né nella conservazione e archiviazione informatica di esso […], ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico […] e della sua diffusione sul Web, quanto meno a fare tempo dal ricevimento della diffida […] per la rimozione di questa pubblicazione dalla rete”. Insomma, se la vicenda è risalente nel tempo ed è venuto meno l’interesse pubblico alla sua conoscenza, il gestore del sito che non rimuova i dati in seguito ad apposita diffida deve anche rispondere dei danni cagionati agli interessati per violazione del loro diritto alla riservatezza.

Da segnalare che a livello europeo il recente Regolamento (UE) 2016/679 relativo alla protezione dei dati personali delle persone fisiche, che ha abrogato la precedente direttiva 95/46/CE, ha tipizzato nuovi diritti ed obblighi che consentano all’interessato di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo. La cancellazione può avvenire se sussistono una serie di motivazioni previste all’art. 17 del Regolamento medesimo (ad esempio se i dati non sono più necessari, se sono stati trattati illecitamente o se sono stati forniti da un minore). Interessante la previsione per cui se il titolare del trattamento ha reso pubblici i dati personali, lo stesso è obbligato non solo a cancellarli ma, tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione, anche ad avvertire tutti i soggetti che trattano i medesimi dati di cancellare qualsiasi loro link, copia o riproduzione. Infine, il già citato art. 17 prevede che il diritto all’oblio non possa essere riconosciuto in alcune situazioni, alcune delle quali già elaborate dalla giurisprudenza: quando è escluso da una norma di legge, per motivi di interesse pubblico, ricerca scientifica, fini statistici o per pubblico interesse nel settore della sanità pubblica, per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria oppure per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione.

Cosa bolle in pentola: cyberbullismo e oltre.

La ricerca di una normativa che tuteli le fasce più deboli di età di fronte al cattivo uso che viene fatto degli strumenti digitali sta passando in questi giorni dalla discussione parlamentare della Legge sul c.d. cyberbullismo. Approvata all’unanimità al Senato, modificata a maggioranza dalla Camera e adesso nuovamente all’esame del Senato, la norma è uscita profondamente snaturata rispetto alla sua concezione originaria, essendone stato ampliato l’ambito applicativo anche ai maggiorenni.

Se il diritto all’oblio riguarda la corretta rappresentazione dell’identità personale e digitale della persona, il cyberbullismo viene definito come l’atteggiamento aggressivo o la molestia ripetuta a danno di una vittima in grado di provocarle ansia, isolarla o emarginarla, attraverso vessazioni, violenze fisiche o psicologiche, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese o derisioni che siano compiute attraverso strumenti informatici. Il disegno di legge prevede che chiunque si senta vittima di simili atti possa chiedere al gestore del sito internet o del social network di rimuovere, oscurare o bloccare il contenuto diffuso in rete, anche senza che tale contenuto possa dare origine a reati quali ingiuria o diffamazione. In mancanza di intervento entro 48 ore, il soggetto può rivolgersi al garante per la privacy, che provvede nelle 48 ore successive. In caso di mancato adeguamento al disposto del Garante, possono essere irrogate sanzioni fino ad € 180.000,00. L’oscuramento può essere chiesto anche dal bullo stesso, in una sorta di ravvedimento operoso.

Inoltre, similmente a quanto avviene nella normativa sullo stalking, il disegno di legge prevede che, per reati non procedibili d’ufficio, fino alla presentazione della denuncia o querela, il Questore possa convocare il responsabile della condotta illecita, ammonendolo oralmente e invitandolo rispettare la legge. Se l’ammonito è minorenne dovrà essere accompagnato dal genitore.

Viene anche istituito un tavolo tecnico per la prevenzione e contrasto del fenomeno presso la Presidenza del Consiglio, con il compito di elaborare un piano d’azione integrato e realizzare una banca dati specifica. Il Ministero dell’Istruzione dovrà poi elaborare linee di orientamento per combattere il fenomeno nelle scuole, attraverso la formazione del personale scolastico, misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti e l’istituzione, in ogni istituto, di un docente con funzioni di referente per le iniziative contro bulli e cyberbulli. Ai singoli istituti viene demandata l’educazione alla legalità e all’uso consapevole di internet.

Interessante notare che il disegno di legge si discosta in modo significativo dall’evoluzione giurisprudenziale sul diritto all’oblio, poiché esclude dalla definizione di gestore, che è il fornitore del servizio su internet, gli access provider, i cache provider ma soprattutto i motori di ricerca.

Viene infine aggravata la pena per lo stalking online, che prevede anche contorni meglio definiti.

Era ora! O forse no?

Non esiste persona che non ritenga necessaria una normativa in grado di tutelare al meglio gli utenti di internet, soprattutto se appartenenti a fasce d’età più deboli. Tuttavia, nell’attesa di scoprire quale sarà il testo di legge definitivo, non si può fare a meno di registrare l’esistenza di molte voci critiche nei confronti del testo approvato dalla Camera, se è vero che anche la senatrice che ha presentato la legge ha espresso contrarietà alle modifiche intervenute in quella sede.

Da un lato, le perplessità riguardano i pericoli per la libertà di manifestazione del pensiero, poiché l’oscuramento o la rimozione dei dati web non è fondata su alcun parametro oggettivo. Basta sentirsi offesi o sottoposti ad ansia per mettere in moto il meccanismo di rimozione o di sanzione per il gestore del sito. Questo può inevitabilmente portare ad un uso distorto della normativa anche in favore di chi è tutto fuorché vittima di bullismo (c’è chi ha fatto l’esempio del ristoratore che si dice sottoposto a stress da una recensione negativa sul suo locale), con inevitabili pericoli per la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto di critica.

Dall’altro lato, vi è chi accusa il testo modificato dalla Camera di scarsa tutela proprio nei confronti dei minori, che dovrebbero essere oggetto di attenzione principale in una normativa contro il cyberbullismo. La normativa così congeniata, infatti, finirebbe per non funzionare, dato l’ingolfamento che si potrebbe creare presso il Garante della privacy per le troppe richieste ricevute. Vi è anche chi ha sostenuto la totale inutilità di una normativa che si sovrappone a strumenti di tutela della riservatezza già esistenti.

Del resto, il testo che il Senato aveva approvato all’unanimità, ancorava la rimozione dei dati alla possibile sussistenza di reati quali stalking, diffamazione, minacce o molestie, con possibilità per il minore di età superiore a 14 anni di inoltrare personalmente la richiesta al gestore del sito. Come aveva dichiarato all’epoca la senatrice del PD Elena Ferrara, prima firmataria del disegno di legge: “Non possiamo, né vogliamo delegare alle aziende il monitoraggio sui comportamenti digitali, se non su precisa e puntuale richiesta. Pensare di controllare internet non comporta necessariamente limiti alla libertà di tutti. Dobbiamo infatti fare leva sulla scelta nelle mani dei nostri ragazzi e promuovere l’utilizzo responsabile di quello che rimane pur sempre uno strumento”.

L’angolo della deontologia: dovere di segretezza e riservatezza

La deontologia è il complesso delle regole di condotta che devono essere rispettate nell’attività professionale, la violazione delle quali comporta sanzioni giuridiche per l’avvocato. Tali sanzioni sono applicate in seguito ad un provvedimento del Consiglio Distrettuale di Disciplina, che ha sede presso ogni Corte d’Appello sul territorio nazionale. Le norme di deontologia per l’avvocato si trovano nel nuovo Codice deontologico forense, approvato il 31 gennaio 2014 dal Consiglio Nazionale Forense.

Art. 13 – Dovere di segretezza e riservatezza

L’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali.

Questa disposizione è contenuta nel Titolo I del Codice deontologico, che prevede i principi generali cui deve essere improntata l’attività dell’avvocato. La riservatezza ed il segreto su ogni notizia che l’avvocato riceve dal proprio cliente sono componenti fondamentali della sua attività professionale; si potrebbe dire che ne costituiscono il fondamento, non potendo instaurarsi un rapporto di fiducia mancando questi presupposti. La segretezza copre tutta le notizie ottenute durante lo svolgimento di qualsiasi attività: sia essa di consulenza, stragiudiziale, o processuale.

Si tratta di una norma che tutela sia la parte assistita che il difensore. La prima potrà confidare ogni suo problema all’avvocato senza temere che un giorno questo diventi di dominio pubblico. Il professionista è allo stesso tempo garantito nella sua libertà ed indipendenza, non potendo assistere al meglio una persona senza poter opporre, in determinati casi il segreto professionale. Ecco che, allora, il Codice penale punisce all’art. 622 la rivelazione di segreto professionale e al tempo stesso il Codice di procedura penale prevede, agli artt. 200, 256 e 362 la possibilità per il difensore di eccepire il segreto professionale rispettivamente in sede di testimonianza, di richiesta di esibizione di documenti o consegna di atti e di assunzione d’informazioni da parte del p.m. Anche il Codice di procedura civile, all’art. 249 consente all’avvocato di astenersi dal testimoniare su fatti coperti dal segreto professionale.

L’art. 13 deve essere letto assieme all’art. 28, rubricato Riserbo e segreto professionale. Questa disposizione prevede che l’obbligo del segreto sussista anche quando il mandato è terminato o rinunciato, e che l’avvocato si debba adoperare per far mantenere il segreto anche dai collaboratori di studio e dai praticanti. Solo in alcuni casi è consentito derogare a tale obbligo, e sempre nella misura strettamente necessaria: per lo svolgimento dell’attività di difesa; per impedire un reato di particolare gravità; per allegare fatti in controversie tra avocato e cliente o parte assistita; nell’ambito di una procedura disciplinare. Mentre l’art. 13 stabilisce il principio generale, è l’art. 28 a prevedere le sanzioni per la violazione del dovere di segretezza e riservatezza: la censura e, nel caso di violazione del segreto professionale, la sospensione da uno a tre anni.

Al di là delle norme che tutelano il segreto, come deve comportarsi il difensore per meglio tutelare segretezza e riservatezza del cliente e della parte assistita? Ce lo dicono alcune pronunce del Consiglio Nazionale Forense che, ad esempio, ha affermato che l’avvocato ha “il vincolo di tenere riservata la stessa esistenza del rapporto, con particolare riguardo alla trattazione/esternazione dell’oggetto del mandato difensivo”, non potendo farsi pubblicità mostrando chi sono i suoi clienti (cfr. C.N.F., sent. n. 130/2013). Addirittura, deve adottare alcune cautele per non mettere in vetrina i propri clienti, nel caso di uno studio fronte strada con vetri non schermati (cfr. C.N.F., sent. n. 37/2013).

La responsabilità del committente nella lavorazione tessile

Terzisti pratesi, questi sconosciuti. Almeno fino ad una sentenza del Giudice del Lavoro del Tribunale di Prato, dott.ssa Consani, dello scorso 11 marzo, che ha ritenuto applicabile anche all’organizzazione del lavoro del nostro distretto tessile una norma prevista all’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 (c.d. attuativo della Legge Biagi), così come riscritta dalla Legge n. 35/2012.

Cosa prevede la norma?

Testualmente, il secondo comma dell’art. 29 sopra citato prevede che, salvo deroghe previste dalla contrattazione collettiva “in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto […]”. Si tratta di una previsione speciale e maggiormente favorevole al lavoratore rispetto alla norma generale prevista nel Codice civile per il contratto di appalto (art. 1676) che limita la responsabilità solidale “fino alla concorrenza con il debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.

Quali erano i dubbi applicativi?

Le problematiche applicative dell’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 sono tuttora legate alla riconduzione alla responsabilità solidale solo nei confronti di quanti abbiano lavorato in un determinato appalto e per i soli crediti di lavoro da questi maturati in relazione all’esecuzione di quello specifico contratto. Ecco che questo principio non crea problemi in casi in cui l’appaltatore gestisce un contratto per volta. Nel caso dei terzisti, però, che ogni giorno effettuano lavorazioni o servizi per una molteplicità di committenti, riuscire ad attribuire a ciascun committente la quota di trattamento retributivo, per cui è responsabile in solido nei confronti del lavoratore, poteva non essere così semplice.

Cosa cambia con questa sentenza?

Si tratta del primo caso in materia in città, che ha applicato il principio della responsabilità solidale stabilendo che la retribuzione oraria può essere un corretto criterio per individuare quanto dovuto al lavoratore nello svolgimento di un determinato appalto. Individuando dai prospetti quante siano le ore lavorate per ciascun committente è possibile applicare l’art. 29 del D. Lgs n. 276/2003 anche al meccanismo delle lavorazioni tessili.

Dunque tutto bene?

Sicuramente la sentenza del Tribunale di Prato apre nuovi scenari per il panorama imprenditoriale cittadino, con le imprese chiamate a scegliere con maggior attenzione i propri appaltatori per evitare di dover rispondere dei loro debiti. Soprattutto, saranno i lavoratori ad avere maggiori garanzie di ottenere quanto di loro spettanza dal punto di vista retributivo e previdenziale. Questo, naturalmente, in via di prima approssimazione. Ogni caso concreto, infatti, deve essere studiato con attenzione prima di ricorrere in giudizio, posta la possibilità di deroga alla normativa da parte dei Contratti collettivi, la facoltà del committente di eccepire il beneficio di escussione dell’appaltatore e la prescrizione biennale decorrente dalla cessazione dell’appalto.